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 Home page > Attualità > Europa > Il genocidio dimenticato di Srebrenica del 1995

Il genocidio dimenticato di Srebrenica del 1995

Stasera, alle ore 23 (purtroppo in seconda serata) ci sarà su La 7 il programma del bravo giornalista Piroso dedicato alla strage di Srebrenica. Ben 8372 bosniaci furono massacrati dalle truppe serbo-bosniache del generale Ratko Mladić. Un crimine di guerra ove c'è stato anche uno strano mancato intervento dell'ONU che controllava il territorio. Uno dei ricercati, a parte Mladic, era il famoso Željko Ražnatović, meglio conosciuto come Arkan, sanguinario esecutore di genocidi e pulizie etniche nei Balcani. Ancora oggi è considerato un mito tra i nazionalisti Serbi e lo abbiamo visto nella famosa partita di calcio qui in Italia, quando la squadra che inneggiava ad Arkan inscenò una vera e propria guerriglia. 

Ora, in seguito riporterò un racconto di una ragazza italiana che si vuole firmare come "Furetto Idealista" dove racconta la sua esperienza di volontaria a Srebrenica. Leggete, queste sono storie poco raccontate. Storie di sofferenze disumane, ma con un fardello sulle spalle portato con tanta dignità.

11 Luglio 2010, 15 anni dal massacro di Srebrenica...

È l'11 Luglio, sono le 6 del mattino a Sarajevo, siamo quattro ragazzi italiani in viaggio verso Srebrenica. Sono passati 15 anni da quando furono violentemente trucidate 8000 persone.

La strada da Sarajevo a Srebrenica è una strada di montagna, con curve e tornanti; maggior parte del percorso è attraverso la Republika Srbska (repubblica serba di Bosnia Erzegovina), quindi non è raro trovare cartelli in cirillico. Il paesaggio è bellissimo, montagne vergini, prati, tanto verde e tanta acqua; la mattina presto è molto rilassante viaggiare attraverso le montagne e il silenzio. 

Anche se quella mattina la strada non era molto silenziosa, tra autobus, auto normali e di stato; insomma non eravamo soli.

Il nostro percorso procede tranquillo, la polizia ci devia, e come tanti altri siamo costretti a prendere la strada più lunga, di cui una parte è sterrata. Arriviamo a una decina di chilometri da Srebrenica e ci imbattiamo in una fila di macchine. Siamo bloccati! Sono già le 9.30 e la cerimonia inizia alle 10! Temiamo di non arrivare, vediamo molte persone; tra cui diversi anziani, che scendono dalle macchine e vanno a piedi. Quando vediamo il cartello "Srebrenica" siamo un po' sollevati, forse riusciamo ad arrivare. Parcheggiamo e iniziamo ad andare a piedi, la strada dalla città al memoriale è lunga; c'è una fila di persone, molte sono anziane. Camminano, non si lamentano: vogliono arrivare. Ci sono macchine parcheggiate di targhe non bosniache: possono essere stranieri; oppure profughi, che ora vivono altrove e che sono tornati in occasione del memoriale.

Arriviamo a Potočari con un taxi e continuiamo a camminare, ci sono sempre tante persone; un fiume di persone e di macchine sulla strada del memoriale. Fa caldo, fa molto caldo, il sole batte forte; tutti camminano, nessuno si ferma e nessuno dà segni di stanchezza. Come in tutti i viaggi rimangono impresse delle immagini, dei flash: riguardo al tragitto ho impressa quella di queste donne anziane che camminano sotto il sole con una bottiglietta d’acqua in mano.

Camminiamo ancora per un paio di chilometri e arriviamo al punto del memoriale: c’è un mare di persone sotto il sole, alcune si riparano con gli ombrelli, fa caldissimo. Rimaniamo sbalorditi dalla quantità di persone e dal silenzio, perché nonostante tutto non c’era il rumore da piazza; ma non saprei come descriverlo, perché non può neanche essere definito silenzio, era qualcosa di profondamente diverso...

Sono ormai le 13,30, buona parte della cerimonia è stata svolta; decidiamo di visitare la vecchia fabbrica, quella in cui dormivano i caschi blu e in cui si è svolto parte dell’eccidio. La fabbrica è diventata un museo: ci sono fotografie dell’assedio di Srebrenica, dei militari, delle fosse comuni; ci sono le storie di alcune vittime e accanto ci sono gli oggetti personali che sono stati trovati accanto, chi un pacchetto di sigarette, chi un anello, chi un quaderno. Oggetti che fanno parte di una storia, di una vita... Vediamo diverse stanze, ci sono delle macchie rosso scuro, quasi marrone; ci sono ancora i disegni dei militari olandesi e le loro scritte. Il loro compito sarebbe stato quello di proteggerli...

Usciamo e ci dirigiamo al memoriale, dove si stanno celebrando i funerali delle 775 persone riesumate. Ci sono moltissime persone, per terra si vede questa macchia verde: sono le bare delle vittime. Un fiume verde, circondato da tantissime persone raccolte attorno a loro.

Sulla collina ci sono molte persone, sedute dove capita, spesso tra le altre tombe; sono in silenzio e pregano. Alcune piangono. È un pianto silenzioso, segno di una ferita che non si è mai cicatrizzata; forse piangono per i mariti, forse per i figli. Forse piangono per il sollievo di essere riuscite a dare loro degna sepoltura. Forse. Quello che mi lascia impressionata è la loro dignità: le loro lacrime non hanno nulla di melodrammatico, ciò che traspare è un immenso dolore e un’enorme dignità. L’elemento che più mi ha colpito è stata proprio la dignità, nonostante la sofferenza.

Riguardo a questo momento ho due immagini impresse nella mia mente: quella di due persone anziane, la prima una donna, seduta per terra, sotto un ombrellone, che, al momento dell’interramento è scoppiata in un pianto infinito. E quella di un uomo, che, con altri, seppelliva le bare verdi; e che non ha smesso di piangere un secondo, spalava la terra e piangeva, piangeva, piangeva.

Certe ferite non potranno mai rimarginarsi, ma credo che il nostro obbligo sia quello di combattere affinché queste cose non accadano. Abbiamo il dovere di guardare al di là dei nostri confini, dove nessuno guarda; e fare in modo che dolori come questi non si ripetano mai.

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