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Il figlio dell’altra

Dev’essere raggelante scoprire che il figlio allevato per oltre 20 anni non è il proprio figlio biologico ma “Il figlio di un’altra” e per il ragazzo apprendere che quei genitori non sono i suoi naturali, perché se quella notte del 23/1/1991, in piena guerra del Golfo, i neonati non fossero stati scambiati per errore nell’ospedale di Haifa, “per te sarei un perfetto sconosciuto”. 

È destabilizzante, sconvolgente, scoprire di aver vissuto in una casa e con dei genitori che non ti appartenevano, quasi una vita di altri (“le vite degli altri” che sono poi simili alle nostre).

Così avviene a Joseph e a Yacine, e ai rispettivi genitori: si tratta per giunta di una famiglia ebrea quella del primo e di una famiglia palestinese nel caso del secondo.

Il rabbino dice a Joseph che “l’ebraismo è uno stato spirituale connesso alla tua stessa natura”, non ci può essere bugia più pietosa: la natura non fa nascere le persone con l’appartenenza codificata a uno stato o a una religione; i bambini nascono ed è del tutto casuale che nascano ad un antìpode oppure in quello opposto.

Le distanze e le appartenenze si creano dopo, sono sovrastrutture mentali create dalle regole che gli uomini si danno, confini disegnati sulla carta da leader che spesso “distruggono un popolo”. È solo per effetto di un muro eretto per dividere le due popolazioni che il papà “adottivo” di Yacine svolge il mestiere di meccanico d’auto e non quello che gli appartiene di ingegnere meccanico, perché gli è vietato uscire dai suoi confini palestinesi.

Nel film vediamo il filo spinato dei confini tra palestinesi e israeliani eppure le famiglie dei due ragazzi e loro stessi si mescolano, non hanno alcuna reciproca avversità naturale e Joseph e Yacine per puro caso sono finiti al di qua o al dil à del confine.



In fondo è perfettamente identico dire “Che Dio ci aiuti” o “Che Allah ci aiuti”. Alla scoperta dello scambio di bambini le madri sono quelle che piangono e per prime rielaborano l’avvenimento, i padri invece sono annichiliti, si resistono ad accettare la realtà ma poi le vite vanno avanti, “è del mondo che sono i figli e non sono figli tuoi” scriveva Gibran.

In fondo le due famiglie scoprono una dimensione nuova, i figli diventano quasi in coabitazione per le due coppie e le differenze non sono poi così proibitive. Grandi verità al riguardo, che spazzano il campo da eventuali crisi d’identità, sono quelle pronunciate da Yacine, frasi molto mature per la sua età: “Non è solo questione di un certificato di nascita”, “Sono sempre stato chi volevo e quello che volevo” e “Per te che vivi la mia vita, non la sprecare”.

Cita pure Isacco e Ismaele, un padre, Abramo, e due popoli. Il film è ottimamente interpretato, un magnifico film che non indulge a isterie o melodrammi. La regista – e più ancora la sceneggiatura – hanno celebrato la mancanza di confini, la insussistenza dei motivi che rendono nemiche una popolazione all’altra, un film "ecumenico", nel senso di universale.

Piccola citazione attinente: Mario Rigoni Stern scriveva in “Storia di Tonle” che le frontiere sono innaturali, i fiumi e gli uccelli ad esempio si muovono senza tenerne conto.

 

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