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Il culto della solitudine: gli hikikomori e il fanatismo religioso

Chi si chiude in sé stesso fino ad arrivare all’isolamento completo dal resto del mondo (dal giapponese, hikikomori) spesso trova nel fanatismo ideologico e religioso l’illusione di una via d’uscita. Ne parla Simone Morganti sul numero 6/2021 della rivista Nessun Dogma.

Gli antichi romani definivano religio la venerazione cieca, acritica e dai contorni ossessivi nei confronti di persone o cose. L’etimologia della parola non potrebbe essere più limpida: il sostantivo religio deriva dal verbo religo, che a un significato generale di “legare, legarsi” ne affianca un altro riferibile al campo semantico della navigazione: “attraccare”. La genealogia del termine sembra quindi suggerirci che la religione sia al tempo stesso un qualcosa cui aggrapparsi e un luogo sicuro nel quale ci si può – metaforicamente – abbandonare. Spesso è l’unico rifugio che molti giovani (e anche meno giovani) pensano di avere a disposizione per poter evadere da un mondo che non accettano – e dal quale non si sentono accettati.

Oggi coloro che sono affetti da questa condizione psicologica sono chiamati hikikomori, un termine che nella cultura giapponese descrive quegli individui, per lo più giovanissimi, che si chiudono in sé stessi fino ad arrivare all’isolamento completo dal resto del mondo. Ovviamente questo quadro psicologico è tutto fuorché nuovo, ed esiste da ben prima dell’invenzione del termine hikikomori, esattamente come il fuoco esisteva già da prima che gli antichi greci coniassero il termine pûr, pyrós per descriverlo. E già da molto tempo è noto che gli hikikomori, outcast o emarginati che dir si voglia spesso trovano nel fanatismo ideologico l’illusione di una via d’uscita.

Il fanatismo però non allevia, ma piuttosto inasprisce la sensazione di solitudine spingendo a innalzare altri muri anziché abbattere quelli già esistenti. Pochi giorni fa, per le vie della mia zona (un quartiere multietnico non troppo lontano dal centro di Roma), mi sono trovato davanti a una scena insolita e raccapricciante. Nel sole rovente degli ultimi – ma caldissimi – giorni di un’estate infinita, tra i ragazzi e le ragazze che si godevano il bel tempo e i bambini appena usciti da scuola, una ragazza musulmana spingeva il fratello in passeggino. Ho intuito che aveva attorno ai sedici anni, ma gli indizi a disposizione erano scarsissimi: il suo corpo era interamente avvolto da un nerissimo niqab, che lasciava libera una sola, strettissima fessura per gli occhi. Il burqa e il niqab sono una delle manifestazioni più evidenti dell’isolamento forzato cui spingono le religioni. Sono allo stesso tempo uno strumento per rivendicare l’identità collettiva della comunità di appartenenza e un vero e proprio ghetto portatile per separarsi dall’ambiente circostante.

Ma le mura che le religioni fanno innalzare sono per lo più immateriali e ideologiche. Costituiscono un recinto invisibile fatto di regole e precetti, all’interno del quale è possibile interagire solo con i membri della propria comunità religiosa, e che tengono a debita distanza gli altri, gli infedeli. Negli Stati Uniti e in Canada ci sono le Christian Radio Stations, che trasmettono esclusivamente musica “evangelic-friendly”. Nulla di incompatibile con i dettami di una democrazia liberale, intendiamoci. Ma queste radio danno spazio a un mondo fasullo, fatto su misura per gli ascoltatori ed emendato da tutti quei riferimenti al mondo reale che potrebbero turbarli: sesso, alcol, piacere, mondanità. Come ogni hikikomori che si rispetti, il profilo del religioso praticante medio (che va ben distinto dal religioso occasionale e dal religioso ipocrita) è caratterizzato da profonda paura nei confronti del mondo e sfiducia nei confronti del prossimo. Un po’ come il Leviatano di Hobbes, dio – o meglio, l’archetipo che vive nella mente umana – somiglia al sovrano assoluto senza il quale tra gli esseri umani dominerebbero il caos, l’anarchia e la malvagità. È un deus ex machina talvolta anche crudele, ma necessario a mantenere l’ordine e a stabilire le regole. Non a caso i regimi autoritari appartengono a due macrocategorie: quelli che fanno della religione un collante identitario, e quelli che invece si impongono come alternativi a essa, spesso arrivando a vietarla.

Nell’ortodossia religiosa l’hikikomori da un lato trova un sufficiente numero di muri da tirare su per proteggersi e isolarsi dal prossimo, dall’altro nel contatto coi membri della comunità – o della setta – riesce a soddisfare il bisogno di socialità finora inappagato. È così che nell’occidente le sacche di sofferenza e miseria dove è negato l’accesso al benessere si trasformano in sacche di ortodossia e fanatismo. L’esempio più immediato è quello delle banlieue parigine. Tra queste è emblematico il caso di Trappes. Una municipalità francese a trenta chilometri da Parigi, Trappes ha un reddito medio pro capite tra i più bassi della Francia e appena sopra alla metà di quello della regione, l’Ile-de-France. Negli ultimi anni dalla banlieue (dove il 70% della popolazione è di religione islamica) risultano essere partiti per la Siria un centinaio di foreign fighters dell’Isis: un numero enorme, ma che è l’esito naturale di una ghettizzazione sia etero-, sia auto-inflitta. Da un gran numero di sofferenze individuali trascurate scaturisce un collettivismo identitario tossico e nocivo.

È qui che il mondo laico e umanista deve intervenire, cercando il più possibile di rappresentare un’alternativa. Nel farlo però ci si trova davanti a molti problemi che partono già dal livello semantico: l’ateismo e l’agnosticismo vengono considerati delle ideologie nichiliste perché gli stessi sostantivi che li descrivono trasmettono in nuce l’idea di mancanza. Non a caso all’ateo/agnostico viene spesso rinfacciato di vivere un’esistenza vuota perché decide scientemente di eliminare dio dalla propria vita.

In realtà però è l’esatto contrario: a vivere una condizione di vuoto e carenza è proprio chi si rifugia nella religione. Il pensiero ateo-agnostico accetta il vuoto e l’indefinito come caratteristica intrinseca della vita, il pensiero religioso invece cerca nei dogmi e nelle superstizioni il viatico per la salvezza. Le considerazioni pessimistiche sulla capacità dell’essere umano di darsi delle regole portano alla necessità dell’esistenza di un dio-Leviatano tirannico. Siccome però il dio-tiranno non è particolarmente loquace, il suo volere va interpretato. Il risultato è che, nel farlo, gli esseri umani fanno a gara per darne l’interpretazione più tirannica possibile, e così ciò che in principio avrebbe dovuto essere uno strumento per contrastare la malvagità umana diventa motivo e fonte di ulteriore malvagità.

In un certo senso la religione diventa causa del male che si prefigge di combattere, e la sofferenza che innesca porta gli esseri umani ormai abbrutiti a pensare che serva… un’altra religione. Un circolo vizioso cui sembra non esserci soluzione. Anche se in realtà c’è, e come Uaar ci impegniamo ogni giorno in questa direzione.

Simone Morganti

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