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I regni del silenzio: come gli stati del Golfo perseguitano chi si occupa di diritti

A novembre lo sportwashing (la strategia, praticata soprattutto degli stati del Golfo persico, che sfrutta gli eventi sportivi per nascondere la pessima situazione dei diritti umani) sarà al suo apice: il Gran premio di Formula 1 degli Emirati Arabi Uniti e i Mondiali di calcio in Qatar.

Per non rimanere indietro, l’Arabia Saudita si è già aggiudicata i Giochi asiatici invernali (sì, invernali) del 2029.

Chi volesse sollevare il tappeto dello sportwashing troverebbe un quadro sconfortante. Secondo Amnesty International sono almeno 75 le persone in carcere nei tre stati sopra citati e nel Bahrein solo per aver esercitato i loro diritti di espressione, associazione e protesta pacifica.

Negli stati del Golfo i raduni pubblici sono gravemente limitati, le organizzazioni non governative sono perseguitate o direttamente messe fuorilegge e si finisce in carcere per aver pubblicato un commento su Twitter.

Per contrastare l’imminente periodo di massimo splendore dello sportwashing, Amnesty International ha lanciato una campagna per chiedere la scarcerazione di tutti i prigionieri di coscienza negli stati del Golfo, mettendo in luce in particolare quattro storie.

 

Salma al-Shebab, dottoranda saudita dell’università di Leeds, è stata condannata in primo grado a sei anni e in secondo a 34 anni di carcere, seguiti da altri 34 anni di divieto di viaggio all’estero, solo per aver pubblicato un commento su Twitter.

Ahmed Mansour, difensore dei diritti umani emiratino, deve ancora trascorrere quasi la metà della condanna a 10 anni di carcere inflittagli al termine di un processo irregolare per “insulto allo status e al prestigio degli Emirati Arabi Uniti e ai suoi simboli e leader”, a sua volta per aver pubblicato sui social media contenuti relativi ai diritti umani.

In Qatar, gli avvocati Hazza e Rashed bin Ali Abu Shurayda al-Marri, entrambi appartenenti alla tribù al-Murra, sono stati condannati all’ergastolo per aver organizzato raduni pubblici e aver contestato la legge elettorale in quanto discriminatoria nei confronti del loro gruppo.

Abdulhadi al-Khawaja (nella foto), difensore dei diritti umani del Bahrein, è in carcere da 11 anni. È stato condannato all’ergastolo per aver preso parte a proteste pacifiche. Nel 2011, quando fu arrestato, venne brutalmente torturato: da allora la sua salute è peggiorata e non riceve cure mediche adeguate.

 

 

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