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I media e la pubblicità fanno male alle imprese

Contrariamente a quanto normalmente ritenuto, il costo pubblicitario risulta proibitivo per le piccole e medie imprese italiane che costituiscono l’ossatura della nostra economia. Esse si vedono così interdetto l’accesso ai media e vedono diminuire il proprio potenziale sul mercato, proprio perché risultano limitate le loro possibilità di interloquire con i propri target. Si tratta di una situazione paradossale, determinata sostanzialmente dall’altissimo costo di gestione dei media e quindi dalla loro necessità di raccogliere molta pubblicità, circostanza che aumenta l’affollamento e richiede budget elevati per ottenere visibilità.

Più o meno tutti concordano: in un momento di crisi di come quello attuale, in cui i consumi ristagnano o diminuiscono progressivamente, la produzione industriale soffre un drammatico stop e, in definitiva, i mercati si contraggono e diventano più difficili per le imprese e per i prodotti, la comunicazione ha un ruolo chiave per sostenere la competitività delle imprese, assumendo più che in altri momenti una valenza strategica decisiva, sia sui mercati interni che su quelli esteri.

Eppure accade che per la maggior parte delle aziende italiane in un momento delicato come questo comunicare diventa difficile, se non addirittura impossibile.

Le cause sono naturalmente molteplici, a cominciare da quelle che la maggior parte degli esperti di settore invocano: una scarsa maturità del sistema industriale nostrano, che considera la comunicazione un elemento accessorio e non centrale delle politiche di sviluppo e di mercato e che valuta come costo e non come investimento la spesa in attività di comunicazione.

 Non c'è dubbio che sia in parte così. Viene tuttavia da chiedersi: è solo questo il motivo per cui una crisi oggettiva non riesce a trasformarsi in opportunità usando come leva la comunicazione o esistono altri motivi? E se solo questa è la causa esclusiva, essa è frutto di un'arretratezza culturale delle nostre imprese o anche di qualcosa d'altro, magari di condizioni oggettive che non incentivano e facilitano il ricorso alla comunicazione?

Chi scrive, pur non negando che esista ancora un'inadeguatezza culturale delle aziende (talvolta addirittura diffidenza) nei confronti della comunicazione, ritiene tuttavia che i principali motivi ostativi risiedano altrove e siano determinati da cause oggettive e da motivazioni culturali che condizionano il mercato viziandolo, rendendolo asfittico e ingabbiando la comunicazione dentro ambiti stretti, angusti e, soprattutto, privi di prospettiva.

Le cause cui si fa riferimento sono sostanzialmente due:

- una cultura della comunicazione interamente fondata sulla centralità dei mass media;

- un costo reale di accesso ai media molto elevato, fra i più alti d'Europa.

Lette alla luce della composizione del sistema industriale italiano, sostanzialmente centrato su imprese di piccole dimensioni, generalmente con fatturati bassi, e che tuttavia incidono molto più che altrove sulla produzione di ricchezza nazionale (sul PIL), queste cause determinano una situazione realmente anomala in cui nel nostro Paese i media e la pubblicità invece di favorire lo sviluppo, lo frenano, lo bloccano e lo inibiscono.

Naturalmente molti affermeranno che questa è un'affermazione forte ed eccessiva, se non addirittura una forzatura. Ma non è così. Dati e considerazioni alla mano vediamo perché.

1) È vero, il prezzo medio degli spot televisivi e degli annunci su quotidiani e periodici in Italia è basso. È anche vero, però, che le nostre imprese mediali (televisioni, giornali, radio) hanno dei costi di gestione molto elevati determinati da una serie di motivi:

- il contratto giornalistico, visto l'obbligo che tutte le aziende hanno a fare informazione e quindi a prevedere (a norma delle leggi vigenti) figure professionali iscritte all'albo;

- cachet troppo elevati;

- eccessivo ricorso a produzioni esterne (con relativa duplicazione delle figure interne);

- eccessivo ricorso all'acquisto di format.

Un tale insieme di costi elevati (cui si aggiungono le ordinarie tassazioni dirette e indirette, più onerose che altrove), obbliga sostanzialmente tutte le imprese mediali ad una raccolta pubblicitaria molto corposa in termini economici (quindi alla vendita di molto spazio/tempo) e, contemporaneamente, all'utilizzo di tecniche tese a favorire l'acquisto e basate sulla logica basso prezzo/alta quantità. Tutto ciò instaura un meccanismo davvero perverso di crescita esponenziale dell'affollamento pubblicitario: gli spazi costano poco, quindi se ne comprano molti, ma visto che anche gli altri, compresi i concorrenti diretti, ne comprano in quantità elevate, per ottenere visibilità se ne debbono comprarne ancora di più. Con la conseguenza che la possibilità di visibilità è direttamente proporzionale alla capacità di investimento/spesa delle imprese. Alla faccia dell'efficacia e della creatività.

Questa situazione è perfettamente testimoniata (Tabella 1) dal basso numero di imprese (circa 17 mila) che investono in pubblicità e dall'alta spesa procapite per impresa (650 mila euro). Solo in Germania la spesa media è più cara, ma la composizione del sistema industriale è completamente differente, perché lì è la grande impresa e non la piccola a detenere le leve dell'economia (Cfr. Tabella 2).

 

Tabella 1

Investimenti pubblicitari in Italia e nei principali paesi europei

(fonte: www.gandalf.it)

 

 

Investimento totale

(in mil di dollari)

Numero di inserzionisti

Costo medio inserzionista

(in mil di dollari)

Gran Bretagna

25.027

41.000

0,61

Germania

21.771

30.000

0,73

Francia

20.000

38.000

0,53

Italia

11.140

17.000

0,65

Spagna

8.811

49.000

0,18

 

 

Tabella 2

Imprese, addetti e fatturati in Italia e nei principali paesi europei

(fonte: Istituto Tagliacarne/Unioncamere)

 

 

Francia

Germania

Italia

Regno Unito

 

Numero imprese

 

 

 

 

1 – 9 addetti

83,1 %

43,2 %

82,9 %

73,6 %

10 – 49 addetti 

13,0 %

49,3 %

14,9 %

19,7 %

50 – 249 addetti 

3,1 %

5,9 %

2,0 %

5,4 %

Oltre 250 addetti

0,8 %

1,5 %

0,3 %

1,3 %

 

Numero addetti

 

 

 

 

1 – 9 addetti

12,2 %

6,6 %

25,5 %

11,1 %

10 – 49 addetti

18,8 %

16,2 %

31,4 %

19,2 %

50 – 249 addetti

21,7 %

23,7 %

21,0 %

25,5 %

Oltre 250 addetti

47,2 %

53,6 %

22,1 %

44,2 %

 

Fatturato

 

 

 

 

1 – 9 addetti

7,6 %

2,2 %

11,8 %

5,9 %

10 – 49 addetti

11,8 %

8,3 %

24,6 %

11,2 %

50 – 249 addetti

18,0 %

18,5 %

25,6 %

20,7 %

Oltre 250 addetti

62,7 %

70,9 %

37,9 %

62,1 %

 

2) Il sistema industriale italiano, invece, è peculiare e, in Europa, senza eguali paragonabili. Il peso delle nostre PMI in termini di numero di addetti e soprattutto la loro incidenza sul PIL non ha paragoni con il resto del continente. Basti pensare che (come si evince dai dati Union Camere – Istituto Tagliacarne) il 37% del fatturato industriale italiano è determinato da imprese con meno di 50 dipendenti e solo poco più del 37% da imprese con più di 250 dipendenti, mentre in Europa queste ultime sviluppano fatturati compresi fra il 62 e il 71% del totale (Tabella 2). Il numero di imprese con più di 250 dipendenti in Italia è pari allo 0,5% del totale, in termini assoluti circa 19.000, mentre il fatturato medio delle PMI nostrane è di 6,5 milioni di euro, anche se soltanto il 14% ha fatturati superiori ai 5 milioni di euro, mentre ben il 74% fattura meno di 2 milioni (Tabella 3).

 

Tabella 3

Suddivisione per fatturato delle imprese italiane

(fonte: Unioncamere)

Fasce

di fatturato

(in milioni di Euro)

 

Meno di 0,2

 

da 0,2 a 0,6

 

da 0,6 a 1

 

da 1 a 2

 

da 2 a 5

 

da 5 a 50

 

oltre 50

 

Quota %

 

 

25,5

 

21,8

 

11,3

 

14,2

 

13,5

 

12,1

 

1,6

 

Leggendo questi dati, due elementi assumono particolare rilevanza e sembrano spiegare in maniera chiarissima (se non addirittura definitiva) che la pubblicità in Italia è roba per pochissimi, perché la maggior parte delle aziende (e addirittura la quasi totalità delle piccole aziende) non può minimamente permettersela, mentre in Spagna, in Francia e in Gran Bretagna sì:

- le imprese che investono in pubblicità sono 17 mila e le aziende con più di 250 dipendenti 19 mila, c'è quindi una quasi totale sovrapposizione/coincidenza fra imprese medio-grandi e imprese che investono in pubblicità;

- il costo medio annuo in pubblicità per ogni azienda investitrice è di 650 mila euro, ma il 74% delle imprese italiane ha fatturati inferiori ai 2 milioni e quindi è materialmente impossibilitata a sostenere una spesa tanto elevata, pari a circa 1/3 del proprio volume d'affari.

 3) Esiste poi quel problema culturale legato alla comunicazione cui già si è fatto cenno, il quale tuttavia è molto complesso e non si risolve solo in un'arretratezza del sistema industriale, che non considerando la comunicazione una leva strategica nei momenti di crisi la taglia. Da un lato si tratta di una mentalità figlia di un'imprenditoria molecolare derivata da una civiltà contadina, dove la dimensione della piccola impresa a conduzione (o comunque centralità) familiare ha fatto sì che le logiche di gestione familiare e quelle d'azienda in qualche modo si mescolassero, cosicché la pratica del risparmio, del non spreco, dell'essenzialità e dell'accantonamento hanno prevalso anche nella dimensione d'impresa, relegando in posizione subalterna il rischio, l'innovazione e il dinamismo che da esse consegue.

D'altra parte, però, c'è un problema determinato dall'eccesso di centralità che i media hanno nel sistema della comunicazione d'impresa italiano e dall'eccesso di peso che in tale quadro assume la televisione. Qui da noi, i mass media assorbono il 65% del totale degli investimenti in comunicazione, a fronte di una media nei principali paesi europei del 53%. Dal canto proprio la televisione assorbe ben il 54,3% del totale della pubblicità (fonte Nielsen, 2009) e quindi, a conti fatti, oltre il 35% dell'investimento totale in comunicazione. Troppo e sbagliato! Tanto è vero che le aziende europee non italiane, nonostante per esse, in termini medi, la pubblicità sia meno cara e più conveniente, differenziano maggiormente i propri investimenti in comunicazione rispetto alle nostre imprese, destinandola, per una quota prossima al 50% del totale, ad altre modalità.

Questo dato evidenzia un ulteriore aspetto, che costituisce, se così si può dire, l'aggravante determinante, il vero elemento di ritardo e di inadeguatezza del sistema comunicativo italiano, la ragione per cui oggi si può dire (bisogna dire, anche a voce alta) che qui i media e la pubblicità bloccano lo sviluppo delle imprese, ancor più lo fanno in tempi di crisi. Infatti, il centralismo massmediatico e, quindi, la predominanza del linguaggio pubblicitario – la lingua delle merci – hanno fossilizzato la comunicazione d'impresa italiana dentro un sistema sostanzialmente enunciativo, assertivo e top down, che privilegia il prodotto al consumatore, l'offerta alla domanda. Essendo culturalmente legato ai media e alla pubblicità, è un sistema comunicativo caratterizzato da un bassissimo grado di sperimentazione (basta pensare allo spot/storiella a puntate in stile Carosello che nonostante oggi sia impossibilitato a funzionare vista l'alta frequenza di passaggi che una campagna appena visibile richiede, continua ad essere perennemente riproposto) o, peggio, da un elevatissimo grado di conservatorismo espressivo e da una limitatezza creativa che si traducono in una debole capacità e in una scarsa disponibilità di lettura delle dinamiche di aggregazione dei consumatori o di relazione diretta fra i prodotti e i consumatori.

Disfunzioni che si concretizzano in veri e propri deficit comunicativi, in uno sguardo privo di orizzonte che non pone attenzione (o ne pone pochissima) al punto vendita; ai luoghi di incontro e di convergenza dei consumatori (quotidiani, urbani, straordinari, elettronici); al potenziale comunicativo legato alla fisicità del prodotto stesso; alle dinamiche fiduciarie fra consumatori e alla conseguente valorizzazione del brand che ne può derivare; alle dinamiche e alle modalità determinate non solo in termini comunicativi, ma anche socio-culturali, dai nuovi media, tendenzialmente ancora considerati alla stregua dei media tradizionali (basta vedere il ricorso per lo più pubblicitario e ancora una volta enunciativo che le imprese fanno ai social network).

 È evidente che se in Italia il sistema resta ingabbiato e bloccato dentro l'attuale centralismo massmediatico, la comunicazione ha scarsissime possibilità di trasformarsi in adverMarketing, ossia in una leva di sviluppo per le nostre imprese, le quali sempre più si troveranno ad essere svantaggiate rispetto ai propri concorrenti non soltanto sul piano globale, pagando il deficit culturale del nostro sistema, ma anche sul piano locale, sommando a quella deficienza anche una maggiore "povertà" o scarsità di risorse, e quindi minore capacità/possibilità di ricorrere ai media.

E vero, dunque, che le aziende debbono cambiare ottica, ma è ancor più vero che prima di esse debbono cambiarla i professionisti della comunicazione e le istituzioni, i primi trasformandosi in veri consulenti delle imprese e imparando a sperimentare, a rischiare, a mettersi in gioco battendo strade diverse e proponendo mix di strumenti, azioni, attività e strategie; le seconde abbandonando l'atteggiamento protezionistico nei confronti del sistema dei media, limitandosi a tutelare i tre diritti all'informazione (fare, ricevere e distribuire) ed evitando di regolare in maniera diretta o indiretta il mercato, cosa che purtroppo dal dopoguerra in poi non hanno mai smesso di fare.

Non è certamente il solo o il principale motivo, ma è evidente che se le imprese italiane hanno più difficoltà sui mercati è anche a causa di questa stagnante situazione di predominio massmediale e di centralità pubblicitaria che si trasformano in zavorre, in motivi di ritardo, in tare, in definitiva in una malattia endemica che alla lunga rischia di provocare molti danni alle nostre imprese.

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