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I marcatori genetici che predicono il rischio di contrarre il COVID-19 in forma severa

Per combattere il COVID-19 occorre monitorare le varianti e studiare i vaccini, ma non solo. Resta una domanda fondamentale: perché alcuni - una volta contratto il virus – sperimentano un decorso severo della malattia, mentre altri restano del tutto asintomatici? Dai geni arrivano le prime interpretazioni delle nostre risposte al COVID-19

di Giulia Annovi

 

Per capire come funziona l’infezione da COVID-19 in soggetti diversi, la partita si gioca nell’ambito della genetica umana. Gli scienziati sono convinti che nei geni si nasconda la diversa reazione all’infezione da COVID-19. E la loro scommessa si è rivelata corretta.

Infatti, la ricerca sul DNA ha permesso di individuare 13 loci, cioè aree ben posizionate nel genoma, che recano geni collegati alle manifestazioni più severe del COVID-19. Il gruppo di ricerca dell’Institute for Molecular Medicine Finland (FIMM) dell’Università di Helsinki, guidato da Andrea Ganna e da Mark Daly, ha appena pubblicato il risultato su Nature. E per riuscirci ha coinvolto la comunità scientifica internazionale nel progetto COVID-19 Host Genetics Initiative.

I geni che predispongono alle forme severe del COVID-19

L’importanza di coinvolgere una comunità di ricercatori per avere una grande variabilità nei set di dati genetici si rispecchia nei risultati. Dei 13 loci riportati sulla pubblicazione, due avevano frequenze più elevate tra i pazienti di origine dell’Asia orientale o dell’Asia meridionale rispetto a quelli di origine europea.

Uno di questi due loci si trova vicino al gene FOXP4, che è collegato al tumore del polmone ed è importante per lo sviluppo dell’epitelio delle vie aeree. Altri loci associati a COVID-19 grave includevano DPP9, un altro gene coinvolto nel tumore del polmone e nella fibrosi polmonare e TYK2, che è implicato in alcune patologie autoimmuni. Sono stati individuati anche loci privi di candidati associati a patologie polmonari, in cui è più difficile individuare il legame gene-fenotipo. Infine, sul cromosoma 3 ci sono segnali molto forti, che potrebbero essere associati alla suscettibilità al COVID e non alla gravità.

“In realtà, i risultati del paper sono già vecchi”, ha commentato Andrea Ganna. “Abbiamo pubblicato i nuovi risultati all’inizio di giugno sul nostro sito. Le regioni collegate al COVID-19 individuate a oggi sono 23. Alcune di queste sembrano essere molto promettenti”.

La ricerca sulle forme più severe del COVID-19 continuerà fino alla fine dell’anno. “C’è un valore clinico nello studiare la genetica delle forme severe di COVID: un assetto genetico potrebbe aiutare a prevedere le forme più gravi”.

Intanto ci sono altre iniziative collaterali di ricerca che ci spiegheranno qualcosa di più sul ruolo della genetica nelle diverse forme di COVID-19. Ad esempio, la ricerca sulle forme di long COVID o quella sui pazienti che si reinfettano dopo la vaccinazione.

La genetica e le terapie

Lo studio del genoma potrebbe anche contribuire all’identificazione di nuove terapie contro il COVID-19.
La variante FOXP4 associata a COVID-19 grave, ad esempio, aumenta l’espressione del gene. Quindi l’inibizione del gene potrebbe essere una potenziale strategia terapeutica.

“Nell’ambito delle malattie infettive, la maggior parte degli studi si focalizza sul genoma del virus e non sul genoma umano. C’è l’idea che la cosa più importante sia l’infezione e che una volta infettati tutti abbiano lo stesso decorso. Il COVID ha smentito questa teoria, dimostrando che la componente genetica è importante. Anche l’HIV l’aveva dimostrato in precedenza, con il gene CCR5 delta 32 che conferisce resistenza al virus”.

Alcuni dei risultati del consorzio confermano dati evidenziati anche in studi più semplici, che avevano già permesso di individuare i primi farmaci potenzialmente utili per trattare il COVID-19. La portata dello studio potrebbe però permettere di individuare nuovi farmaci per il trattamento dell’infezione.

“Oggi le case farmaceutiche usano i dati di genetica umana soprattutto per decidere a quali trattamenti dare la priorità di sviluppo, cioè dove indirizzare i finanziamenti o quali studi passare da una fase preclinica a una fase clinica”.

Grandi numeri, grande collaborazione

I risultati pubblicati provengono da uno dei più grandi studi di associazione sull’intero genoma mai eseguiti. Il consorzio COVID-19 Host Genetics Initiative, fondato nel marzo 2020 in seguito a un tweet di Andrea Ganna. Oggi il consorzio include più di 3,300 autori e 61 studi condotti in 25 paesi diversi.

We are launching the “COVID-19 host genetics initiative”

Goal: aggregate genetic and clinical information on individuals affected by COVID-19@FIMM_UH will genotype samples for FREE and make the data available to the scientific communityhttps://t.co/FXdVFZhoBC

— Andrea ganna (@andganna) March 16, 2020

https://platform.twitter.com/widgets.js

Lo scambio di informazioni tra gruppi diversi che si occupano di genetica umana è possibile perché la misurazione dei marker genetici è eseguita con metodi standard. Si tratta di protocolli robusti di estrazione e analisi del DNA che consentono di essere certi delle mutazioni rilevate.

“Nel nostro metodo di analisi e condivisione dei dati la vera novità risiede nella statistica” spiega Andrea Ganna. “Abbiamo stabilito in modo preciso e condiviso quali tipi di analisi statistiche eseguire per identificare le frequenze delle mutazioni nella parte della popolazione che ha avuto il COVID rispetto a quella che non ha contratto la malattia. E lo abbiamo fatto per uno studio di grandi dimensioni, per numero di gruppi di ricerca inclusi e numero di etnie”.

Lo studio ha un grande numero di campioni analizzati. Il consorzio ha raccolto dati clinici e genetici dai quasi 50.000 pazienti che sono risultati positivi al virus e 2 milioni di controlli.
“Oggi è possibile condurre studi di questo tipo perché sfruttiamo i GWAS array, che contengono alcuni milioni di marker comuni. Non sono analisi molto costose: bastano 40-50€”, ha spiegato Ganna.

L’importanza dei campioni

Lo studio condotto da COVID-19 Host Genetics Initiative sarebbe stato meno robusto senza tanti campioni e senza la possibilità di confrontare differenti etnie. I campioni provengono da numerose biobanche, studi clinici e società genetiche dirette al consumatore come 23andMe.

Dalla Finlandia sono stati inclusi 810 pazienti dello studio FinnGen, una biobanca che non serve solo a studiare il COVID-19 ma circa 3000 malattie diverse.

“La nascita di FinnGen è dovuta a una legge molto lungimirante promulgata in Finlandia. È un sistema all’avanguardia rispetto al resto dell’Europa”, racconta Ganna. “In base a questa legge, i campioni prelevati da un paziente ospedalizzato sono direttamente disponibili per la ricerca, con un consenso generico e automatico del paziente. Su questi campioni quindi la ricerca è libera di fare qualsiasi tipo di analisi vengano preventivamente approvate da un comitato etico”.
È una differenza importante rispetto all’Italia e all’Europa, dove invece la legge prevede che il paziente debba rilasciare un consenso specifico per ciascuna ricerca cui partecipa con i suoi campioni.

Un’altra particolarità di FinnGen è la connessione tra i dati della biobanca e i registri di popolazione, che in Finlandia sono molto sviluppati. “Ogni dato del genoma è in relazione con i farmaci assunti, le ospedalizzazioni o le malattie pregresse. Oggi i dati genomici disponibili sono relativi al 10% della popolazione finlandese”.

Il COVID-19, una novità anche per il modo di fare ricerca

Anche il modo di condurre la ricerca è stato innovativo per il consorzio COVID-19 Host Genetics Initiative.

La ricerca è iniziata senza fondi, appoggiandosi sulle possibilità dei singoli laboratori che hanno partecipato alla ricerca. “A differenza di altri iniziative di questo tipo, noi non abbiamo perso tempo a inviare domande di finanziamento”.

È un modo di lavorare che parte dal basso e che esclude bandi e agenzie di granting.
Tale modo di lavorare si rispecchia anche nella volontà di condividere immediatamente i risultati, resi pubblici sul sito web del consorzio. “Volevamo spendere più tempo a produrre risultati piuttosto che a produrre pubblicazioni”.

Ma tale approccio si è dimostrato vincente anche per cambiare le consuetudini di pubblicazione di alcune riviste importanti come Nature. “Con Nature abbiamo un accordo, che rende il paper un oggetto dinamico. Il formato di Nature, chiamato “Matter Arising”, assicura l’aggiornamento di un paper già pubblicato sia nella sezione dedicata agli autori sia nei risultati, una volta acquisiti nuovi dati. Era anacronistico chiudere un paper mentre noi aggiorniamo in modo continuativo i risultati”.

Un tale livello di innovazione, collaborazione e velocità non sarebbe stata raggiunta senza l’emergenza. Lo riconosce anche Ganna che conclude “abbiamo colto le opportunità spalancate dall’emergenza del COVID-19”.


Leggi anche: Covid-19: variante Delta e vaccini

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia

Immagine: Photo by Viktor Forgacs on Unsplash

Questo articolo è stato pubblicato qui

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