In un articolo pubblicato ad ottobre di quest’anno, gli editori di The Lancet Psychiatry, hanno elogiato il coraggio di atleti come Simone Biles e Naomi Osaka, che hanno parlato pubblicamente della loro salute mentale, contribuendo a indebolire lo stigma che ancora persiste nella società riguardo alle malattie mentali.
“Naomi Osaka è la prima tennista nella storia olimpica ad accendere la fiamma per inaugurare l’inizio dei giochi olimpici”, scrivono gli autori. “Questa scelta ci è parsa particolarmente toccante dato il suo ruolo nel portare alla luce le sfide contro cui lei e molti altri atleti lottano, per quanto riguarda i problemi di salute mentale”. Osaka ha lasciato l’Open di Francia a causa di una forte ansia, mentre Biles, leggenda della ginnastica americana, si è ritirata da diverse competizioni a causa dello stress.
Sono i casi più recenti, non certo i primi e non saranno gli ultimi, visti gli importanti livelli di stress e le pressioni a cui gli atleti professionisti sono sottoposti.
“Lo sport esalta situazioni e tratti della personalità”
“Non dimentichiamoci che praticare sport è un fattore protettivo, che riduce in maniera importante, evidente e assolutamente inequivocabile, il rischio di disagio mentale”, ci tiene a precisare in un’intervista a OggiScienza l’ex schermidore italiano, Daniele Crosta, oggi psicologo dello sport, specialista in psicologia cognitiva e docente presso la scuola di specializzazione di psicoterapia cognitiva di Como Milano.
“D’altra parte è anche vero che gli atleti di alto livello sono esposti a situazioni particolarmente pesanti”, continua.
“Lo sport esalta le situazioni e i tratti della personalità, la pressione è forte e l’atleta deve essere attento a tutto ciò che fa e ciò che dice”. Senza considerare le aspettative elevatissime di chi lo circonda e non solo: un calciatore professionista che entra in uno stadio è circondato da migliaia di persone che si aspettano qualcosa da lui, e riceve milioni di euro da sponsor che pretendono un certo rendimento.
“È comune che un giovane atleta soffra di ansia da prestazione, che senta una forte pressione e, se la prestazione non è all’altezza, che si senta depresso”, spiega Alessandro Bargnani psicologo, psicoterapeuta dinamico breve, Direttore e docente del Master in Psicologia e Coaching nello Sport presso CISSPAT Centro Italiano Studio Sviluppo Psicoterapia a Breve Termine ideatore CISSPAT LAB. “Possono insorgere comportamenti evitanti, come gli attacchi di panico, e la frustrazione può portare al burnout”.
Sembra scontato, eppure spesso non lo è: gli atleti sono persone, esseri umani comuni come tutti gli altri. Naturalmente i disturbi mentali citati possono colpire chiunque, quindi anche gli sportivi professionisti. Questi ultimi però sono sotto i riflettori e “qualunque cosa accada nella loro vita privata e personale, il pubblico si aspetta che siano sempre performanti e sorridenti”.
Quando parliamo di atleti professionisti ci riferiamo a persone giovani, a volte giovanissime, che possono avere dai 15-16 anni a poco più di 30. “Il problema sta proprio nel fatto che si tratta in alcuni casi di adolescenti o poco più, esposti a pressioni che non sono ‘attrezzati’ a reggere”, osserva Crosta. “Di certo un bambino che inizia a fare attività fisica sviluppa la sua socialità, così come una certa capacità di fronteggiare la frustrazione, di orientare l’impegno, la concentrazione, l’attenzione. Tutte competenze utili a far fronte alle difficoltà. Ma una quindicenne (per fare un esempio) che prima di una gara finisce sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo e che sente come tutti si aspettino che vinca, viene esposta in modo eccessivo allo stress”.
Un altro aspetto da tenere a mente è il fatto che uno sportivo di professione ha costruito il proprio io, la propria personalità, sull’essere un atleta, sull’essere il più bravo di tutti a praticare un certo sport e ad essere riconosciuto a livello mondiale per questo. “La tua identità si fonda su questo, il tuo mondo per circa 30 anni è questo”, commenta Crosta. A un certo punto però la carriera sportiva finisce. “Molti atleti diventano allenatori anche perché così possono conservare la propria identità di ex campioni e questa scelta permette una transizione identitaria più lenta”. Non tutti però possono diventare allenatori.
“È la ragione per cui è molto importante continuare a studiare o comunque creare altre percezioni di sé oltre quella sportiva”, concorda Bargnani, parlando del fine carriera ma anche della possibilità di infortuni e difficoltà nel corso della carriera sportiva: bisogna avere un piano B.
In generale, secondo Crosta, nel corso degli anni sono stati fatti dei grandi passi avanti. È più facile parlare di salute mentale e affrontare un disagio psicologico rispetto a qualche decennio fa. Anche tra gli sportivi. “Di certo ci sono sempre stati casi di depressione o ansia tra gli atleti, ma non venivano dichiarati in passato”.
L’esperienza di Sir John Kirwan
John Kirwan, ex giocatore degli All Blacks, campione del mondo nel 1987, ha reso pubblica nel 2006 la sua battaglia contro la depressione che lo ha colpito tra gli anni ’80 e ’90. Da allora si è impegnato in prima persona in campagne di sensibilizzazione, nel 2009 ha scritto un libro sulla vicenda, “Gli All Blacks non piangono”, ed è stato interprete di un cortometraggio dallo stesso titolo.
Intervistato da OggiScienza sui disturbi mentali che colpiscono gli atleti di alto livello, Kirwan mette in luce due aspetti. “Primo: è fondamentale realizzare che la salute fisica e la salute mentale sono strettamente interconnesse. Secondo: la salute mentale riguarda chiunque. Puoi essere ricco, povero, bianco, nero, puoi praticare o meno uno sport”. Nel caso degli atleti però le pressioni sono maggiori e le fragilità della salute mentale sono più esposte, vengono amplificate.
Kirwan racconta la sua esperienza: “il mio problema era che non sapevo cosa mi stesse accadendo, pensavo di star diventando matto e non avevo punti di riferimento. O meglio, il mio punto di riferimento per quanto riguarda la salute mentale era il film ‘Qualcuno volò sul nido del cuculo’, sicuramente qualcosa di estremo, e pensavo ci fosse qualcosa di ‘non normale’ nei problemi mentali. Quando alla fine ho cercato aiuto il mio dottore mi ha detto: ‘non è una debolezza, ma un peso, e più lo lasci lì più ti appesantisce’. Ho deciso anni dopo di parlarne, per togliere lo stigma sulla salute mentale e dare speranza alle persone”.
“Come in medicina, servono prevenzione e diagnosi precoce”
La Sir John Kirwan Foundation, fondata da Kirwan, aiuta la popolazione a riconoscere e comprendere i problemi di salute mentale, attraverso diversi progetti.
Uno di questi è Mitey, un approccio evidence based alla salute mentale rivolto ai bambini delle scuole elementari. “Ho creato un programma scolastico che insegna ai bambini cosa succede nel loro cervello e offre strumenti psicologici per affrontare le difficoltà e comprendere le emozioni”.
Studiare e conoscere la propria mente e le proprie emozioni, proprio come si fa con la matematica o le lingue, potrebbe essere un modo per prevenire i disturbi mentali, o comunque per fornire gli strumenti per affrontarli al meglio. Al momento il progetto coinvolge centinaia di studenti in Nuova Zelanda.
I disturbi di salute mentale sono comuni, e vanno affrontati come una qualunque patologia. “Proprio come avviene in medicina, ciò che serve per fronteggiare una malattia sono prevenzione, diagnosi precoce e trattamenti efficaci”, osserva Crosta a questo proposito.
Lo psicologo concorda quindi con l’utilità di agire precocemente, già dal momento in cui i bambini iniziano a praticare uno sport. Sarebbero utili un sistema e delle infrastrutture diverse da quelle di cui disponiamo. Molte attività sportive in Italia non hanno e non possono permettersi uno psicologo fisso, e le strutture scolastiche non danno allo sport l’importanza (e le infrastrutture) di altri Paesi, in particolare quelli anglosassoni.
La salute mentale dovrebbe essere quindi al centro dell’inquadramento sportivo, dall’infanzia all’adolescenza, per offrire all’atleta gli strumenti per affrontare pressioni e stress unici, fino a favorire la transizione di fine carriera.
In tutto questo percorso l’atleta non è altro che una persona, che come chiunque altro può andare incontro a difficoltà psicologiche che riguardano il suo funzionamento, cognitivo ed emotivo.