I Figli delle stelle. Il movimento raeliano raccontato da Ivan Carozzi
“Noi siamo figli delle stelle
senza storia, senza età
eroi di un sogno”
Il 13 dicembre 1973, un cantante fallito e appassionato di automobili che risponde al nome di Claude Vorilhon sta passeggiando nei boschi tra le montagne del Puys, una catena di vulcani spenti a qualche chilometro dal Massiccio Centrale, la “testa calva” sdraiata al centro della Francia. Tredici giorni prima, il Primo Ministro Pierre Messmer aveva emanato un decreto che proibiva qualsiasi competizione automobilistica sul territorio francese, in ragione della crisi petrolifera che si era abbattuta sull’Occidente dopo la guerra dello Yom Kippur.
Dopo aver chiacchierato di questo e altro con Mosè, Buddha, Gesù e Maometto (quest’ultimo sarebbe “il più simpatico”, a detta sua) Vorilhon torna finalmente sul nostro pianeta. Cambia nome in Raël, che in lingua aliena significa “il messaggero” – mentre qui, sulla Terra, è il titolo di una canzone degli Who dall’album The Who sell out del 1967 – e comincia a predicare la parola degli UFO. Nasce così il movimento raëliano, una setta che conta circa 90mila adepti in tutto il mondo.
Trent’anni dopo il trip interstellare di Raël, il giornalista Ivan Carozzi sta viaggiando verso una destinazione più abbordabile: la Svizzera, dove si terrà il prossimo Congresso Internazionale Raëliano. Da quell’esperienza è nato un reportage, diventato poi un libro, I figli delle stelle. Cronaca di un raduno raeliano, edito nel 2005 da Cicorivolta e ripubblicato recentemente da Baldini & Castoldi.
Me ne vado in Svizzera anche perché, facendomi sommozzatore di una subcultura, turista della tarda postmodernità, vorrei puntare le mie antenne su Rael e la setta da lui fondata, di cui già avevo sentito parlare molto all’epoca della notizia della prima clonazione umana, quando Rael nel 2001 venne convocato di fronte alla commissione «Energia e Commercio» del Congresso americano, quando il portavoce di Bush, Scott McClellan, dichiarò: «Se lo scopo è clonare un essere mano, allora il Presidente è contrario a ogni esperimento in questo senso». I Raeliani, allora, avevano già acceso un sorriso (ironico) sul mio volto…
A far decidere Carozzi, però, è soprattutto la lettura di un romanzo di Michel Houellebecq, La possibilità di un’isola, tradotto in italiano da Bompiani. Houellebecq è il primo motore immobile da cui questo libro ha inizio. Sua la poesia in esergo (“Se c’è qualcuno che mi ama, sulla Terra o tra le stelle/ Dovrebbe immediatamente darmi un segnale/ Sento avvicinarsi il disastro”), sue, in origine, molte delle suggestioni che Carozzi percepisce quando entra in contatto con gli adepti della setta. Un romanzo "accecante", che fa sviluppare un attaccamento morboso in chi lo legge:
Questo libro, La possibilità di un’isola, ha avuto molteplici ricadute sul mio corpo. Per esempio ha prodotto un numero di effetti diversi sulla regione inguinale e ha rarefatto, per un certo periodo, la mia attività sessuale, dato che il desiderio si riaccendeva soltanto al contatto con la pagina, mentre negli intervalli di tempo, quelli della vita quotidiana, il desiderio sessuale si sospendeva e si rianimava e viveva soltanto alla lettura di quel libro, ripercorrendo la storia della propria origine e sviluppo attraverso lo specchio che Daniel 1 gli porgeva, come se il desiderio, questo animale che ci cova nel corpo, potesse diventare per una volta cosciente di sé grazie alla mediazione di un testo. Ogni volta che il libro si chiudeva, il desiderio anelava a tornarvi, perché voleva saperne di più e mettersi in ascolto di Daniel 1, della sua penosa vicenda, della sua ricerca compulsiva del godimento, dei suoi picchi di piacere altissimi ma effimeri, e delle inevitabili frustrazioni.
Quel contatto con la pagina di cui scrive Carozzi mi è mancato, leggendo I figli delle stelle, avendolo letto in formato ebook. Ma, per una volta, ho avuto la sensazione che il supporto digitale abbia avuto la meglio sul libro stampato. Sono convinto che, se l’avessi letto su carta, non mi avrebbe fatto lo stesso effetto; credo che si sarebbe persa quell’impressione di futuribilità fantascientifica che ho percepito sfogliandolo virtualmente sulla superficie levigata del mio Kindle.
A fare da contraltare a questa modalità di lettura avveniristica c’era Alan Sorrenti, che, con la canzone che dà il nome al libro, mi ha guidato per tutto il tempo - come del resto aveva già accompagnato l’autore nel suo viaggio in Svizzera:
Adesso ascoltiamo Figli delle stelle, il famoso pezzo di Alan Sorrenti, in una versione dove duetta con Claudio Baglioni, Come le stelle noi/soli nella notte ci incontriamo/come due stelle noi/silenziosamente insieme ci sentiamo… Noi siamo figli delle stelle/figli della notte che ci gira intorno/noi stanotte figli delle stelle/c’incontriamo per poi perderci nel tempo, e nel vago scintillio disco del pezzo – archi, Fender Rhodes gocciolanti, il falsetto efebico di Alan Sorrenti – l’ipotesi raeliana si fa all’improvviso più fascinosa, la sento crescere e ramificarsi nella coscienza, girare, prendere forza, come se mi stesse contaminando, come se tutta la semantica coinvolta – le stelle, lo spazio, la scienza – cominciasse a esercitare anche su di me una smisurata forza d’attrazione.
È un immagine perfetta, questa dell’interazione gravitazionale, la “gravità”, attorno a cui ruota la trama di Interstellar di Christopher Nolan, e che fa sì che il giovane Ivan s’incontri con i raeliani “per poi perdersi nel tempo”.
Ecco, adesso sono dentro al big bang, ci sto come se fossi in una brutta discoteca, fermo nel punto in cui l’esplosione sta per aver luogo, la musica per partire, e vedo già i frammenti scagliati lontano dallo scoppio, ne vedo la parabola ascendente, la curva discendente, e io che li raccolgo, i frammenti, uno a uno, per farne questo libro che ho appena iniziato a sognare.
Nonostante tutto Carozzi, un po’ come nel film di Nolan, ha intravisto nei raeliani “il futuro della specie umana”, con i suoi eccessi, le sue contraddizioni, la sua inevitabile mediocrità; ma anche con la tensione verso qualcosa di infinitamente più grande, l’aspirazione di raggiungere le stelle.
Tutte cose di cui scrive, estremamente bene, l’autore di questo reportage, che nella prefazione alla nuova edizione confessa: “Troverete una certa ironia, nelle pagine che seguono, eppure al fondo stavo cercando di parlare d’altro: dell’amore, dell’eros, della vita e della vita oltre la vita”.
Carozzi forse non lo sa, ma il nastro di Möbius che ha scelto per concludere il suo libro, il simbolo dell’infinito, è lo stesso che Houellebecq ha scelto – nella finzione del suo ultimo romanzo, La carte et le territoire – per la sua lapide: “Michel Houellebecq ∞”. Tout se tient, insomma. Tutto si tiene. O, come era solito dire un altro intellettuale francese, “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.
Figli delle stelle è un piccolo gioiello disegnato da mano extraterrestre, un manufatto alieno di grande fascino che fa spesso venire voglia di smettere di leggere, solo per poter guardare in alto e mormorare: “Mio dio, è pieno di stelle”.
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