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Guerre e bugie mediatiche al Festival del Giornalismo

Rapporto tra guerre, manipolazione e propaganda. Se n’è discusso al Festival di giornalismo di Perugia con Laura Silvia Battaglia di Avvenire, Laith Mushtaq di Al Jazeera e Domenico Affinito, Reporter Senza Frontiere.

Non è un videogioco. I corpi dei civili bruciati e squarciati, i brandelli di pelle e di organi sparsi ovunque, si presentano agli occhi degli inviati come la prova inconfutabile dell’assurdità della guerra. Di tutte le guerre. E le fotografie, i video non restituiscono l’odore di morte che penetra nelle narici, si deposita sull’epidermide e non ti abbandona per giorni e giorni.

Chi ha scelto di fare il corrispondente di guerra non lo fa perché ama i combattimenti, le armi o quant’altro, lo fa spinto dalla necessità di raccontare l’inutilità di queste azioni efferate, gli orrori, le ingiustizie, le bugie. Così come hanno testimoniato con fervore, al Festival Internazionale di Giornalismo di Perugia, il 28 aprile, Laura Silvia Battaglia della redazione esteri di Avvenire, Domenico Affinito di Reporter Senza Frontiere e Laith Mushtaq, cameramen di Al Jazeera, in un panel dal titolo "Media e bugie".

Quante volte e chi ci ha fatto pensare alle guerre come azioni indispensabili? Quante bugie ci vengono quotidianamente raccontate per distorcere la realtà? Finché si risparmia agli spettatori la visione cruenta di quanto accade, è più facile continuare indisturbati con le proprie operazioni belliche senza trovare ostacoli. In guerra la prima vittima è la verità e alla fine non vince mai nessuno.

Questo reinventare la realtà per renderla spettacolare è inquietante, tanto quanto la passività dei fruitori che non hanno il coraggio di indignarsi abbastanza.

Gli atti di guerra vengono decisi in luoghi ben precisi che nessuno può vedere. Si cerca di rendere la guerra qualcosa di necessario, di familiare e non cruento, mostrando il meno possibile il danno ai civili. La spettacolarizzazione delle azioni di guerra è diventata più importante della verità. Il vero e il falso non sono più distinguibili, realtà e propaganda s’intrecciano e diventano una cosa sola. E i danni collaterali non sono insignificanti per definizione. Ricordiamo la prima guerra del Golfo in diretta, l’evento mediatico che ha segnato lo spartiacque nella storia dei media. Questa l’introduzione di Laura Silvia Battaglia, che ha aggiunto: “Dopo la guerra in Vietnam, i governi hanno capito che lasciare i giornalisti liberi di andare a vedere cosa succede realmente, produce un effetto talmente forte sull’opinione pubblica da fermare la guerra. E questo ha fatto cambiare completamente le strategie militari. Certo, tutto è cambiato con l’avvento dei social network, quando in quel 23 gennaio 2011 vennero twittati i diecimila morti”.

Domenico Affinito, di Reporter Senza Frontiere, ha focalizzato la riflessione sulla scelta e l’utilizzo dei termini più idonei, passo fondamentale perché si può trasmettere inconsapevolmente un messaggio piuttosto che un altro. In Iraq c’era il problema di come chiamare i combattenti, se guerriglieri, insorti o resistenza islamica. In Italia il termine “resistenza” ha un significato storico molto forte e ben preciso, quindi la scelta delle parole va ponderata con cautela. “E’ cambiato il rapporto tra le popolazioni in lotta e la stampa, soprattutto dei paesi coinvolti, a causa delle notizie errate veicolate. In sette anni sono morti 230 giornalisti in Iraq, e 93 sono stati presi in ostaggio. Il fenomeno è nato proprio lì”.

Laith Mushtaq è andato con determinazione diritto al cuore del problema: “Il mito è sempre più forte della realtà”. Ed ha mostrato alcuni video, esempi eclatanti di bugie mediatiche che hanno plasmato l’opinione pubblica. Il sensazionale salvataggio nel 2003 in un ospedale di Nassirya della ragazza-soldato americana, Jessica Lynch, vittima con altri commilitoni di un’imboscata irachena. Fu dipinta come un’eroina che aveva sparato fino all’ultimo per difendersi dai nemici iracheni. Nulla di più falso. Fu effettivamente rapita ma non maltrattata come era stato detto, e dopo poco rilasciata. Le ferite riportate da Jessica, così come hanno dichiarato i medici iracheni che l’hanno curata e che hanno trovato poi conferma nell’esito dei colleghi americani, non erano state provocate da armi bensì da un banale incidente del camion sul quale viaggiava. La stessa soldatessa, a distanza di alcuni anni, ammise davanti alla Commissione di supervisione e di riforme governative della Camera dei Rappresentanti, che le cose andarono diversamente. Il Pentagono aveva scritto un copione perfetto per la raccolta del consenso, per giustificare, con l’utilizzo di false informazioni, la guerra in Iraq.

Altra menzongna, quella dei neonati strappati dalle incubatrici in un reparto maternità nel Kuwait, e fatti morire sul pavimento freddo. L’infermiera che ha testimoniato i in realtà era la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington e la sua falsa dichiarazione era stata architettata per scopi ben precisi.

Laith Mushtaq ha concluso il suo intervento dicendo che bisogna mandare via i politici corrotti ma anche i media corrotti. “Ogni anno ritorno qui a Perugia perché è importante cambiare questo stato di cose, soprattutto voi che rappresentati i media occidentali potete farlo. Ma dobbiamo essere cauti perché potremmo essere parte di una propaganda pur essendone inconsapevoli. Le parole che utilizzate formano l’opinione pubblica, e anche dire mezza verità è una menzogna. Il giornalismo è uno strumento ma l’obiettivo è l’umanità”.

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