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Gli Slowdive illuminano il Siren Festival: sound cosmico sotto la luna rossa

Un lampo rosso nella notte. S’infiamma l’Adriatico del ‘Siren’ a Vasto. E’ la V edizione di uno dei rock festival più belli e completi su scala non solo italiana, ma mondiale. Tra le tante esibizioni di qualità, abbiamo visto il concerto degli Slowdive, in una calda notte d’estate che ci ha riconciliato con la musica psichedelica, quella dei viaggi intimi nel cosmo dei suoni.

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Gli Slowdive sono tra le poche band importanti che la stampa inglese non ha ’sostenuto’. La Creation di McGee li ha fatti fuori a metà anni 90’. Erano gli anni dello strumentale dualismo commerciale tra Oasis e Blur

E’ uno scenario unico, quello del Siren Festival, tra i giardini, nelle piazze del borgo, nei cortili di palazzi bellissimi come quello del ‘700 intitolato ai Marchesi d’avalos e anche sulle spiagge. E’ qui che la musica bombarda il cielo blu scuro e la festa si accende.

Quando gli Slowdive arrivano sul palco è infatti notte. Il caso vuole che una delle band più stellari della scena rock indie mondiale suoni mentre all’orizzonte, sul golfo di Vasto, si staglia l’eclissi lunare (rossa) più lunga del secolo. Effetti speciali per i tanti sostenitori del gruppo di Neal Halstead il quale, un paio d’ore prima, ha tenuto il suo solo act dall’ indole folk, ma non è affatto appagato, pronto a innaffiare di benzina la sua chitarra bella carica di elettricità. Sotto la visiera dell’ormai consueto cappellino – le frangette ‘shoegazing’ sono solo il ricordo dell’adolescenza - nascosto nella barba, dirige l’orchestra con la solita delicatezza che ben si accompagna alla voce sensibile di Rachel Goswell. Sono i due simboli di una band affiatata che non fa una piega dal vivo.

Oggi sono maturi e convinti, gli Slowdive. Ma hanno sofferto parecchio. Rappresentano un caso di studio per i musicofili più attenti. Sono infatti tra le poche band meritevoli che la stampa britannica non ha coltivato o forse dovremmo dire sponsorizzato apertamente nei primi anni Novanta. Nonostante avessero realizzato un capolavoro come ‘Just for a day’ folgorante emblema del rock celestiale che sviluppava in inquietudini drammatiche le atmosfere oniriche dei maestri My bloody Valentine, la stampa specializzata anglosassone li ha costantemente ignorati e quando ne ha scritto, non sono state lettere d’amore... Accusati d’impersonalità sul palco, e di non evolvere, gli Slowdive si sono ritagliati la loro fetta di ascoltatori, soprattutto fuori dalla patria del rock. Quasi considerati un culto tra gli appassionati del già citato shoegazing, il genere in cui vennero collocati, sono usciti di scena in punta di piedi, dopo tre album e una raccolta di singoli, aprendo la via a differenti progetti solisti, tra gli altri i Mojave 3 di Halstead e Goswell.

Poi la nuova fiammata e la sensazione che tutto quello che avevano fatto non era passato inosservato negli anni. Canzoni universali che erano sopravvissute al tempo, e un paradosso: i ventenni, che le ascoltano oggi, restano estasiati. Due generazioni di estimatori, insomma, fatto insolito tra le band dei primi anni Novanta. La reunion non era una farsa o una necessità, ma probabilmente il desiderio di rimettersi in gioco, tanto è vero che hanno concretizzato il momento favorevole realizzando, nel 2017, un nuovo album, molto apprezzato anche da chi prima non li amava. Ma tant’è, stavolta sono più motivati e forse anche più consapevoli del potenziale. Non una rivincita, però, anche se sono riusciti a cancellare il ricordo dei tempi in cui la Creation di Alan Mcgee li buttava fuori dalla propria quotata scuderia, concentrandosi sull’ascesa degli Oasis, proprio mentre la stampa britannica, per questioni non esattamente artistiche, creava il dualismo tra il gruppo di Manchester e i Blur, probabilmente il punto più basso nella storia del rock indie. Pioggia di soldi, ok, ma pure un colpo al cuore dell’underground. La fine di un’era.

E allora di nuovo live, più veloci della luce cui la loro musica sembra ispirarsi, perché ‘Time changes everything’ come cantava il grande John Squire. A Vasto arrivano con una track list che ha il merito di condensare i brani più famosi, proprio per unire nella stessa galassia fan della prima e della seconda era. C’è il loro primo straordinario pezzo, l’omonima, spumeggiante Slowdive che funziona ancora bene come messaggio d’intenti, anche perché la band suona pure l’infinito viaggio nel cosmo di ‘Avalyn’, sempre dal primo Ep. C’è ‘Catch the breeze’ che sfoca il dramma marziale del primo album. Ci sono ‘Souvlaki Space Station’ ‘Alison’ e la più nota dalle nostre parti ‘When the Sun hits’ tutte del secondo album.

Con la sognante sbornia di ‘Crazy for love’ è tutto un turbinio di fuoco. Le chitarre di Halstead e Christian Savill si attorcigliano come poderosi serpenti, Piazza del Popolo può godere sotto le pulsioni del basso di Nick Chaplin. Il timbro agguerrito della batteria di Simon Scott fa il resto.

Ma l’apoteosi arriva con i nuovi pezzi, quelli del 2017. Forse perché segnano la vittoria artistica degli Slowdive. Poche band tra quelle che si sono riunite dopo vent’anni sono riuscite a ridare una passata di smalto fresco e slancio alla propria carriera. ‘Slo mo’ ‘Star roving’ e sopratturro ‘No longer making time’ e ‘Sugar for the pill’ scuotono la notte vastese. Quest’ultimo pezzo – ha spiegato Neil Halstead pochi giorni fa al podcast ‘Song explorer’ – è ispirato alla lettura di ‘Cime tempestose’ di Emily Bronte ed è incredibile perché se mai avessimo dovuto descrivere in un ‘romanzo’ le atmosfere cupe e intricate (ma con un po’ di luce in più, questo sì) create dagli Slowdive non avremmo potuto trovare opera più ‘azzeccata’. Prima di Halstead era stata l’immensa Kate Bush a omaggiare ‘Wuthering heights’ con quel capolavoro senza tempo che folgorò il mondo musicale nel 1978. L’arte accomuna gli artisti ispirati, sensibili, non importa come, dove e quando.

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La band di Reading ha suonato i ’pezzi’ più noti: dall’esordio omonimo di Slowdive a Sugar for the pill, ispirata dalle atmosfere di ’Cime tempostose’

Da una citazione all’altra, arriva il brano che conclude il concerto. Psichedelia soffice su psichedelia folle e geniale: stavolta è Syd Barrett ad echeggiare nella versione meravigliosa degli Slowdive, con coda celestiale, di ‘Golden hair’. Sono i versi di James Joyce a librarsi nella notte delle sirene vastesi. Una bomba sonica che deflagra sincopata nella mente di tutti i presenti. Un piacevole senso di estasi dark ma indolore, il certificato di originalità di una band rinata dalle sue ceneri, che brucia ancora come un astronave di velluto che viaggia forte verso il sole, tappa speciale sulla luna rossa che, a fine concerto, vediamo all’orizzonte e, mai come stanotte, sentiamo vicina.

Maurizio Cavaliere

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