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Forza maggiore, di Ruben Östlund

Guardo spesso il mondo nella sua fragilità, come in un secondo può sparire una città, sono “solo” le parole di una canzone di Anna Oxa. In Forza Maggiore parrebbe dover sparire sotto una valanga l’hotel sulle Alpi francesi dove una giovane famiglia svedese si accinge a passare la sua settimana bianca. Tanto meritata soprattutto per il papà che ha lavorato molto ultimamente, unica munifica fonte di reddito, questi pochi giorni sanno di “riposo del guerriero”. Sapendo in anticipo lo spettatore che una valanga arriverà, sembra stucchevole il quadretto iniziale che è di una normale settimana sugli sci: le foto ricordo, prepararsi alla partenza con gli sci e scarponi (questo è Battisti) del primo giorno, le tute forse nuove, gli approcci con altri ospiti dell’albergo, i bambini costantemente sorvegliati dal papà che si dedica amorevolmente a loro.
 
La fragilità emerge nella coppia, dopo che la valanga non ha avuto l’esito disastroso che si poteva temere, del resto era una valanga controllata, di quelle che scoppi come di bombe provocano (ma quei rumori sono inquietanti, come le bombe di Torneranno i prati). Papà Tomas lo dice quando sono seduti per il pranzo sulla terrazza dell’hotel e osservano la valanga venire giù, è tutto sotto controllo. A ogni buon conto fugge via come altri, raccogliendo in fretta le sue cose, resta solo mamma Ebba a proteggere i due bambini che chiamano “papà, papà!”. Passata quella abbondante spolverata di neve resta il “giudizio” sul comportamento dell’amorevole papà, eroe nel lavoro ma codardo nella difesa della famiglia, non risponde insomma al ruolo che la moglie gli assegna e che è scritto anche nel pressbook del film: commedia d’osservazione sul ruolo del maschio nella moderna vita familiare. Impegnativo.


 
La vacanza diventa inquietante per il “processo” familiare che la moglie porta avanti, anche con improvvisati amici, una resa dei conti di cui è testimone un maturo cameriere che li osserva silenzioso, pare avere il ruolo della coscienza, quella giudicante. Un thriller psicologico, altro che commedia, ricorda un altro film più soddisfacente, Il Sospetto, anch’esso di latitudini scandinave. Si concluderà solo col pianto a dirotto di Tomas, eroe nudo e punito che piange davanti ai suoi bambini. Forse soddisfatta o forse no, la giustizialista Ebba si mostra incredula: Non stai piangendo sul serio, vero?. Fosse stata più buona e comprensiva, lei (o il regista) avrebbe parlato di quel comportamento solo con lui, magari lo avrebbe aiutato invece di distruggerlo: a ciò potrebbe servire una vacanza, tra altre cose, rinfrescarsi le idee e riflettere privatamente sui comportamenti.
 
Per sovrammercato la vicenda viene fornita di un percorso purificatore per il “guerriero” macchiatosi di quella bassezza egoistica, attraverso un’escursione di sci -alpinismo con l’amico che lo invita a confidarsi e a urlare a squarciagola, forse i pesi interiori si liberano con le urla (?), e attraverso un incontro improvviso e inspiegabile con giovani mezzi nudi che bevono birra in quantità e urlano a distesa, paiono dei blackblocs in vacanza. Ma la purificazione non è finita: il capofamiglia dimostrerà di aver capito la lezione e sarà capace di condurre la famigliola al sicuro in una discesa sugli sci con nebbia fitta. Nessun altro turista si è avventurato sulle piste quel giorno, ma bisognava dare l’occasione all’eroe di mostrare la sua vera stoffa, riabilitarlo! L’inquietudine non finisce qui, o non finisce il desiderio del filmmaker di origliare nascostamente sulle reazioni umane, a ciò sono serviti i 118 minuti del film: un autista inesperto guida il grosso pullman che dovrebbe portare la famigliola e altri sciatori all’aeroporto per il rientro a casa, lungo tornanti pericolosi che neanche lo Stelvio, e nemmeno a ciò si può rimanere freddi. Fermate il film, voglio scendere!

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