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FIAT contro FIOM: il modello vincente di Marchionne

Dal salone dell’auto di Detroit l’ad Fiat Sergio Marchionne ha annunciato l’aumento della quota azionaria di Chrysler posseduta dal Lingotto al 25%.

Quota azionaria che potrebbe salire ancora fino a raggiungere il 35% entro l’anno in corso nel caso in cui Chrysler dovesse centrare altri due performance events, il primo dei quali è l’aumento dei ricavi e delle vendite della casa di Detroit al di fuori dell’area NAFTA.

Marchinne ha annunciato anche il possibile sbarco negli Usa, entro il 2012, della produzione dell’Alfa Romeo. 

Come italiani in America non possiamo fare a meno di sottolineare le grandi capacità manageriali, industriali e strategiche di un uomo in maglioncino che ha avuto una visione prospettica della crisi mondiale che investe il mondo capitalistico e soprattutto finanziario, sapendone trarre delle opportunità tali da portare la Fiat ad essere finalmente una grande multinazionale dell'auto, uscendo da una nicchia che via via si stava restringendo sempre più.

Senza una espansione della produzione, senza sbocchi nel mercato internazionale e senza un' alleanza con altre grandi case automobilistiche, seppur in difficoltà finanziarie, oggi gli stabilimenti Fiat in Italia molto probabilmente sarebbero tutti Termini Imerese, destinati cioè alla chiusura. 

Abbiamo sperato che Marchionne riuscisse a portare a compimento anche l'altro suo progetto europeo di riuscire a concludere un accordo con Opel. Purtroppo le difficoltà in quel caso sono state tutte politiche. La teutonica ostilità germanica nei confronti degli italiani si è consumata in un secco "nein" del governo Merkel che ha preferito altre soluzioni, e che aspettiamo di vedere in futuro a quali conseguenze porteranno.

Per onestà intellettuale non possiamo però francamente prendercela con Angela Merkel per aver fatto delle scelte che in qualità di cancelliere del governo tedesco pensava fossero le migliori possibili per il suo paese in termini di politica industriale strategica nazionale: al contrario non si può dire la stessa cosa del governo italiano, assolutamente latitante nell'appoggiare un visionario come Marchionne. 

Come italiani in Italia non possiamo che esprimere un senso di inquietudine e preoccupazione per uno scontro tra capitale e lavoro che mai avevamo visto consumarsi così aspramente negli ultimi quindici anni.

Il leit motiv di questo scontro si potrebbe così sintetizzare: Fiat ordina, la classe operaia esegue, Confindustria aspetta, il Sindacato si spacca, il governo se ne lava le mani e l'opposizione china il mento.

Il revisionismo unilaterale della contrattazione collettiva del lavoro da parte di Fiat, che fa da testa di ponte per la messa in discussione delle regole di organizzazione e di gestione del lavoro anche da parte di altri industriali di diversi settori produttivi, potrebbe aprire presto una frattura sociale, nella quale non possiamo non scorgere un antagonismo talmente duro da portare presto ad una deriva violenta di protesta.

L'esportazione del modello Pomigliano a Mirafiori con il quale si chiede ai lavoratori di esprimersi attraverso lo strumento referendario circa la loro stessa esistenza produttiva - o si vota sì oppure gli investimenti vengono dirottati altrove - segna di fatto una spaccatura all'interno della Cgil con la sua costola più dura e intransigente del movimento metalmeccanico, la Fiom.

Il doveroso aumento della produttività del lavoro anche attraverso la soppressione di privilegi e benefit sindacali, il necessario sfruttamento a pieno regime degli impianti e l'ottimizzazione dei processi produttivi attraverso l'eliminazione degli sprechi non può però tramutarsi nella messa al bando di un'organizzazione sindacale stabile, con un elevato consenso di massa e che in un certo qual modo garantisce la vita democratica delle fabbriche.

C'è qualcosa che non funziona in tale sistema di regole. Da una parte Fiom riconosce, a parole, la sua natura democratica lasciando esprimere i lavoratori attraverso il referendum, dall'altra annuncia la mancata ratifica dell'accordo anche in caso di vittoria del sì.

Le ragioni di questa incongruenza vengono spiegate dallo stesso Maurizio Landini, segretario generale Fiom, il quale chiede ai lavoratori di andare comunque a votare al fine di evitare schedature da parte dell'azienda, e fa bene a temerle.

La mancata firma da parte della Fiom, indipendentemente dall'esito referendario, comporterebbe l'estromissione della stessa da qualsiasi forma di rappresentanza sindacale all'interno degli stabilimenti Fiat. A nostro avviso questo rappresenterebbe un gigantesco passo indietro per la democrazia non solo dei lavoratori italiani, ma per la stessa collettività sociale, e metterebbe a rischio la stessa tenuta della pacifica convivenza.

Significherebbe la ghettizzazione di un'intera comunità di lavoratori i quali non si sentirebbero rappresentati, lasciando ampio spazio e respiro a forme di insoddisfazioni represse, marginalizzando e abbandonando al loro destino coloro che, isolati, potrebbero cadere vittime di facili ideologismi di violenza.

La settimana che si apre è decisiva. Giovedì e venerdì ci sarà il referendum a Mirafiori, e vedremo se l'appello del segretario Cgil Susanna Camusso alla firma tecnica sarà lasciato cadere nel vuoto.

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