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Essere un altro #7

Immagina che uno sconosciuto, entrato in casa tua, dimostri di poter contestare la tua identità.

Chi è? Cosa vuole ottenere? Come riesce a manipolare le informazioni sulla tua vita? Ma soprattutto: tu chi sei?

Un romanzo a puntate (capitolo 7) sulla fragilità dell'identità nell'era di Internet.

Scritto da Osvaldo Duilio Rossi, dai consigli di Mario Pica.

 

Essere un altro #7

Tutti sono avvelenati. Tutte le persone che incontro quando esco di casa: la tabaccaia, il macellaio, l’orologiaio e l’ottico… addirittura il fruttivendolo, invece di pulire la cicoria, stava tenendo un comizio sui legami tra potere politico e stampa. Per questo me ne ero andato via…

Presi la decisione di cambiare aria quando mi accorsi che vivere nella mia città mi stava demolendo il carattere: mi stava rendendo un vigliacco. Tutte le abitudini assimilate nel corso degli anni, la vista degli scorci metropolitani, le dinamiche sociali... Mi accorsi che non avrei mai voluto abbandonare tutte quelle cose. Me ne accorsi quando capitai per un paio di giorni in una piccola provincia – dieci chilometri quadrati di area pedonale, negozi di cianfrusaglie e sartorie di classe, osterie moderne, chiese antiche ed enormi, affittacamere settantenni spilorci e altezzosi, un quarto degli edifici affacciati su chiostri mozzafiato, gli altri divisi tra case popolari e architetture stilizzate, professionisti distinti a cavallo di biciclette sgangherate, vigili urbani con facce da bisca, macellerie allestite come antiquari o gioiellieri, strade pulite, neanche una persona con l'ombrello sotto una pioggia sottile e assolata da sembrare nevischio, l'aria che sapeva di campagna e di camino, alla stazione una bacheca con le foto segnaletiche e le descrizioni delle abitudini di quattro persone scomparse in estate e l'illusione appesa a numeri di telefono che nessuno mai chiamerà – immaginavo che non sarei mai riuscito ad ambientarmici, che quella gente non mi avrebbe mai dato alcuna possibilità, che mi avrebbero ostracizzato, che sarei stato dissuaso in ogni modo a rimanere, che mi avrebbero sempre sorriso nei negozi ma sparlato alle spalle e che non mi avrebbero mai fatto uno sconto, che avrei dovuto rispettare ogni singola minima e stupida regola, niente favori per me, lì a soli cento chilometri da casa sarei sempre stato solo, mi avrebbero sempre riconosciuto dall'accento, avrebbero sempre saputo che non appartenevo e che non sarei mai appartenuto a quella terra e non mi avrebbero mai fatto avere qualche ruolo in comunità, al massimo avrei potuto affittare una casa e un negozio e alla prima rata insoluta sarei stato sbattuto fuori, con la prima scusa, mi avrebbero preso a pedate perché ce l'avevo scritto in faccia che ero un altro…

Immaginavo che sarei stato molto meglio a casa mia, dove ero sicuro di poter affrontare la sciatteria e le disfunzioni quotidiane con l'indifferenza della moltitudine degli sbandati, dei corrotti e dei fannulloni, i quali non mi avrebbero mai messo alla berlina perché semplicemente non sarei mai stato considerato, se fossi sempre rimasto chiuso in casa; mentre fuori mi sarei dovuto distinguere per qualcosa, sarei dovuto scendere in campo, ma non avrei mai potuto evitare di essere notato per la mia naturale estraneità. In quelle condizioni, dopo essere tornato con la coda tra le gambe dalla provincia, mi accorsi che non avrei mai fatto niente, non avrei mai più fatto niente, non avrei mai tentato, mai più. Ero un vigliacco…

La città – decaduta, impoverita, impigrita, abbrutita – mi aveva contagiato col suo malessere: avevo assimilato tutto il disfattismo e il disincanto degli indifferenti, tutta l'indolenza misera dell'abbandono, come i locali sfitti per le vie del centro, con le saracinesche abbassate e sgangherate da sei anni, i vetri sporchi o rotti dietro e le scritte sbiadite davanti. Sarei stato un estraneo ovunque, mi sarei sempre sentito emarginato, in ogni posto avrei temuto di non essere accolto e avrei pensato che qualsiasi gesto di amicizia fosse un diversivo per colpirmi meglio alle spalle… ma ciò significava che, se per un verso ne avevo paura, d'altra parte desideravo entrare nella vita degli altri e sentirmi integrato in qualcosa di sensato, ordinato e nuovo, in qualcosa che casa mia non poteva darmi, in un posto diverso… e il mio ambiente, il posto che avevo sempre vissuto, mi disincentivava con le sue mollezze, sembrava rassicurarmi ma decretava sempre più perentorio la mia resa.

Piuttosto che essere morto a casa mia, preferivo vivere e morire altrove. Il piacere di viaggiare in paesi sconosciuti per essere sempre uno sconosciuto, per essere sempre e ovunque uno straniero… il piacere di non parlare le lingue per non capire niente, per non essere mai toccato da nulla di ciò che succede e da ciò che fanno le persone… per non essere mai preso dalle vite degli altri, ma per affidarsi sempre all’intuito e all’immaginazione, per azzardare, per sognare incessantemente, come nei primi attimi dell’innamoramento… vedere facce e sentire voci senza sapere cosa pensano, quali affanni e quali gioie vivono, di cosa hanno bisogno e cosa possono darti… essere sempre un altro, un estraneo che passa e che non lascia tracce – in nessuna persona – uno di cui nessuno sentirà mai la mancanza… un osservatore che si gode il piacere di afferrare un brandello dell’esistenza altrui, senza sopportarne il peso, senza viverla tutta e senza pagare il biglietto.

Sentire voci che pronunciano suoni incomprensibili, leggere scritte prive di senso e perciò tutte uguali, essere un semplice testimone, non prendere parte a nessuna recita, essere lo spettatore di uno spettacolo assurdo e trasognato, uno schifoso turista ignorante che prova a dare un senso a cose troppo diverse da quelle che potrebbe capire, sapendo che il senso sarà sempre sbagliato e così sognarci sopra, fantasticare su quale potrebbe essere il vero significato di ciò che si osserva e fantasticare sempre male, sbagliare sempre la mira, senza conseguenze… il piacere di sapere che ciò che è sconosciuto rimarrà ignoto, non sarà mai violentato dall’intrusione di un passante leggero.

Me ne andai, ma poi dovetti tornare.

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