• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cultura > Essere singolari, molteplici, non-essere: il mal-essere della Modernità (...)

Essere singolari, molteplici, non-essere: il mal-essere della Modernità (Parte I)

di Adolfo Fattori

Essere Ricardo Montero di Gianfranco Pecchinenda, Lavieri edizioni, S. Angelo in Formis, 2011, pagg. 94, € 8.90

Che significa essere? Nel senso di avere un’identità definita, unica, irripetibile, di cui si è consapevoli – e che quindi si stabilisce anche grazie al riconoscersi differenti da chiunque altro? Un tema classico della letteratura – anzi, della narrazione, qualsiasi forma prenda, e a qualsiasi formazione sociale appartenga.

Il dubbio insito in un simile interrogativo ne nasconde in realtà un altro: siamo davvero esseri singolari? O da qualche parte, nel mondo, esiste un nostro uguale? Un altro noi stesso? Un sosia, un doppio, una copia? E che succede se costui – un bel giorno – ci scrive? E se una terza persona ci conferma questa esistenza duplice, fantasmatica ma in qualche modo reale, eppure del tutto illegittima?
 
Quasi a ribadire alcune riflessioni di Jean Baudrillard a proposito di mortalità e immortalità, “Una specie che riesce a creare artificialmente la propria immortalità, e che cerca di trasformarsi in mera informazione, rimane una specie umana?” (2007, p. 31, corsivo nostro), queste domande esplodono quando l’imprevedibile irrompe nella vita di tutti i giorni: nel “colpo di scena” con cui Ricardo Montero, il protagonista del primo romanzo di Gianfranco Pecchinenda, Essere Ricardo Montero, nel momento in cui decide di diventare scrittore (p. 18), scopre di non essere unico, e che risucchia e attualizza il tema letterario del doppio nel tempo delle realtà artificiali. Ma anche della tenace resistenza della letteratura come forma della narrazione.
 
Domande come queste esprimono una paura atavica, ancestrale – risalente al tempo del sacro, alla convinzione che la nostra realtà, quella materiale, concreta, sublunare, avesse un suo analogo altrove, nelle sfere, appunto del sovrannaturale, in una teoria di micro e macrocosmi nidificati fra loro. Ma se alla realtà profana abitata dagli uomini ne corrispondeva un’altra analoga, allora lì doveva esserci un qualcuno corrispondente per ognuno di noi. Da questo l’aura da sempre inquietante attribuita agli specchi (cfr. Borges, 1979), la profonda, incontrollabile diffidenza che molte comunità arcaiche attribuiscono alle fotografie e alle altre effigi, e la paura ancestrale per il proprio – immaginato – doppio.
 
Terrore che dall’immaginazione primitiva si trasferisce pari pari nel fantastico, regalandoci veri e propri capolavori narrativi, dal William Wilson di Edgar Allan Poe (1974, p. 220 e segg.) fino all’Altro di Jorge Luis Borges (1977, p. 7 e segg.).
 
E se nelle società arcaiche la presunta esistenza del doppio faceva – anche – da corollario alla convinzione che non ci fosse soluzione di continuità fra il mondo dei vivi e il paese dei morti, fra il proprio stato di vivente e quello di trapassato, grazie al filo che legava alla propria le esistenze dei progenitori e dei discendenti – un esempio magistrale ce ne dà, in pieno Novecento, Juan Rulfo con il suo Pedro Páramo (1977) –, all’epoca del fantastico l’inquietudine connessa all’idea del sosia, del doppio era contigua ad altri interrogativi: quelli che emergevano a proposito delle certezze sullo statuto della realtà ed a quelli, ancor più radicali, sulla sicurezza ontologica, la sicurezza del . Interrogativi che si trasferiscono dal XIX secolo al XX, e vi si insediano radicandosi, inestirpabili, in un ineffabile gioco di specchi fra filosofia e sociologia da un lato, e letteratura dall’altro.
 
Almeno i primi trent’anni del Novecento si interrogano sul soggetto, sull’identità, sul : sul suo statuto, sulla sua riducibilità ad una possibile definizione “scientifica” o meno. E sulla sua relazione con la società e il reale. Le riflessioni sul tema sembrano condurre verso un’unica risposta: la corsa verso la fine del soggetto, la sua sparizione. Come verifica di un dato di fatto – nell’austriaco Robert Musil, ad esempio: si rileggano le pagine che Peter Berger dedica a L’uomo senza qualità in relazione ai tentativi che l’alter ego di Musil, Ulrich Anders, imbastisce per “salvare il sé” (1994).
 
Come speranza, quasi – nello Jakob von Gunten dello scrittore svizzero Robert Walser: “Quando uno se ne sta così inattivo, si accorge tutt’a un tratto quanto può essere faticoso esistere” (1970, p. 76, corsivo nostro) e ancora “ … nella mia vita futura sarò un magnifico zero, rotondo come una palla” (ibidem, p. 12). O in L’assistente (1978),storia di un individuonullo, privo di volontà, nomade – dell’esistenza, prima ancora che dei territori che percorre.
 
Un filo che si dipana per tutto il secolo, fino a oltrepassarne i confini, per ricomparire, ancor più esplicito, in Dottor Pasavento dello spagnolo Enrique Vila Matas (2008), narrazione in prima persona del percorso verso la sparizione di uno scrittore che – appunto – si ispira a Robert Walser e al suo desiderio di svanire dal mondo.
 
E, come i personaggi di Walser (autobiografici come Ulrich Anders), anche Pasavento si abbandona ad un pellegrinaggio di fatto senza meta fra Parigi, Napoli, il manicomio svizzero di Herisau dove Robert Walser passò i suoi ultimi anni, il Nordafrica, alla ricerca della propria sparizione – agli altri, ma quindi anche a se stesso. E istituendo un legame sottile ma necessario, metafisico ma tenace, fra la sua attività di scrittore e la sua sparizione dal mondo: vuole diventare uno scrittore dimenticato. Di più: vuole sparire grazie allo scrivere: “Scrivere è uno spossessarsi senza fine, un morire inesorabile” (Vila Matas, p. 30).D’altronde, esistiamo veramente se nessuno si accorge di noi?
 
E come Pasavento cerca di spacciarsi per Pynchon (solo, sostituendo alla y una i), cerca di sovrapporsi a Walser (pregando il primario del manicomio di accoglierlo), insomma persegue il progetto di diventare letteratura, così il Ricardo Montero del romanzo di Pecchinenda nota – è inevitabile – le sue affinità con il Felipe Montero di Aura del messicano Carlos Fuentes, di fatto un racconto di fantasmi (2011), e la somiglianza – altrettanto necessaria, visto che siamo nell’universo senza dimensioni della finzione (della menzogna, cfr. Manguel, 2010; Campbell, 2011; Pecchinenda, 2010) letteraria – fra il suo nome e quelli di due dei personaggi che ruotano intorno a Pasavento: Ricardo Morante e lo psichiatra Monteiro.
 
Letture
Baudrillard J., L’illusione dell’immortalità, Armando, Roma, 2007.
Berger P., Robert Musil e il salvataggio del sé, Rubettino, Soveria Mannelli, 1974.
Borges J. L., Manuale di zoologia fantastica, Einaudi, Torino, 1979.
Borges J. L., Il libro di sabbia, Rizzoli, Milano, 1977.
Campbell F., Padre e memoria, Ipermedium, S. Maria Capua Vetere, 2011.
Carroll J., Il crollo della cultura occidentale, Fazi, Milano, 2009.
Fuentes C., Aura, Il Saggiatore, Milano, 2011.
Manguel A., Tutti gli uomini sono bugiardi, Feltrinelli, Milano,2010.
Mann T., I Buddenbrook Decadenza di una famiglia, Einaudi, Torino, 1961.
Musil R., L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1962.
Poe E. Allan, Tutti i racconti e le poesie, Sansoni, Firenze, 1974.
Pecchinenda G., Homunculus, Liguori, Napoli, 2008.
Pecchinenda G., L’ombra più lunga, Colonnese, Napoli, 2009.
Pecchinenda G., La verità è finzione: Manguel e il grande dubbio della modernità, in “Quaderni d’Altri Tempi” n. 29, 11/2010,
http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero29/bussole/q29_b01.htm
Rulfo J., Pedro Páramo, Einaudi, Torino, 1977.
Vila Matas E., Dottor Pasavento, Feltrinelli, Milano, 2008.
Walser R., Jakob von Gunten, Adelphi, Milano, 1970.
Walser R., L’assistente, Einaudi, Torino, 1978.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares