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Diritto di cronaca, repressione e informazione | Uno spettro si aggira per l’Europa

Ho partecipato negli ultimi due giorni a Bruxelles a una serie di assemblee e iniziative per costruire una rete europea per il diritto al dissenso. Ho portato, in un panel al Parlamento Europeo, la mia piccola esperienza di giornalista sotto processo ed ho scoperto che ovunque, in Europa, ci sono cronisti, artisti e mediattivisti destinatari di misure repressive per il testo di una canzone, un tweet o un articolo. 

Insieme a me c’erano attivisti sociali (come Nicoletta Dosio, Eleonora Forenza, Marina Albiol Guzmán e Italo Di Sabato) e giuristi (Cesare Antetomaso, portavoce dei Giuristi Democratici). Pubblico di seguito il mio contributo alla ricca discussione di questi due giorni organizzata da Osservatorio Repressione e GUE/NGL. 
 
BRUXELLES, 29/6/2017
Parlamento Europeo – Rete europea per il Diritto al Dissenso
Mi chiamo Davide Falcioni, sono un giornalista italiano di Fanpage.it. Nell’agosto del 2012 lavoravo ad Agoravox e mi occupai con molti articoli della lotta del Movimento No Tav (quiqui qui, solo per fare tre esempi) contro il progetto di “alta velocità” Torino – Lione. Ricordo che quello fu un anno molto caldo, segnato anche dall’incidente a Luca Abbà, manifestante che rimase folgorato su un traliccio dell’alta tensione tentando di fuggire da un inseguimento della polizia.
 
Il pomeriggio del 24 agosto 2012 mi trovavo in Val di Susa e decisi di seguire una manifestazione pacifica a Torino, cioè l’occupazione simbolica di un grande studio di Geologi organizzata nell’ambito della campagna politica “C’è lavoro e lavoro”. Seguii gli attivisti No Tav e poi raccontai quello che avevo potuto vedere in un articolo.
Due anni e mezzo dopo venni chiamato a testimoniare a difesa di un’imputata. Mi recai a Torino ma durante la mia deposizione – quando spiegai che all’interno dello studio “il clima era sereno” e non vi era stata nessuna violenza - il pubblico ministero mi interruppe chiedendo che venissi anche io sottoposto a indagini per gli stessi reati imputati agli altri manifestanti. Nella primavera del 2016 è arrivato anche il rinvio a giudizio: il processo a mio carico comincerà tra due mesi. 
 
L’articolo uno della Costituzione italiana recita, in un passaggio, che “la sovranità appartiene al popolo”. Mi sembra evidente che l’esercizio corretto della sovranità popolare è strettamente correlato alla qualità dell’informazione. Colpire un giornalista, come è accaduto a me, mina il mio diritto di cronaca e il diritto dei cittadini di essere correttamente e pluralmente informati su un’opera strategica e dai costi esorbitanti come la Tav.
 
Il diritto di cronaca trova fondamento nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e nell’articolo 21 della Costituzione italiana, che recita:
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
 
Il diritto di cronaca - come ricordava Valigia Blu - è garantito anche dallo stesso codice penale: la scriminante prevista dell'articolo 51 esclude la punibilità dell'imputato nel caso in cui il reato sia commesso nell'esercizio di un diritto. Riguardo la libertà di informazione, inoltre, la giurisprudenza è d'accordo nel garantire la prevalenza della cronaca anche rispetto ai diritti altrui. La narrazione dei fatti, però, deve corrispondere a verità, essere di interesse pubblico e con un'esposizione civile.
 
La libertà, tuttavia, non va intesa solo per quanto concerne la trasmissione della notizia, ma per un giornalista soprattutto come libertà di acquisizione. E’ evidente che porre un ostacolo all’acquisizione di fonti di notizia mina alle fondamenta il diritto di cronaca. Ricordo bene che nel corso di un interrogatorio il Pubblico Ministero mi domandò come mai non avessi deciso di chiedere alla polizia cosa fosse accaduto all’interno dell’edificio. Secondo l’accusa, dunque, il ruolo del giornalista deve limitarsi a quello di “addetto stampa” della questura, persino quando il giornalista – essendo presente, come nel mio caso – ha l’opportunità di osservare coi suoi occhi cosa sta accadendo.
 
La repressione, dunque, si esercita sempre più anche nei confronti di chi produce informazione, sia cronisti che mediattivisti. Tale repressione ha la funzione evidente di consolidare il pensiero unico, affermare che non vi sono alternative a questo modello di relazioni economiche e sociali. Come se fosse vero ciò che affermava Fukuyama con il concetto di “fine della storia”, come se il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell'umanità avesse raggiunto il suo apice, malgrado il sistema capitalistico abbia generato profonde ineguaglianze tra un’esigua ricchissima minoranza di abitanti del pianeta e una larghissima maggioranza, alle prese con guerre, carestie e mutazioni climatiche epocali.
E’ vero: un giornalista deve rispettare regole rigorose per esercitare bene la sua professione. Ma è vero anche che un giornalista si occupa della società ed ha, sempre e comunque, un ruolo attivo spingendo a conformarla oppure a trasformarla. Nel giornalismo l’obiettività non esiste. Esiste l’onestà.
 
Sono molti i casi in cui il diritto di cronaca e quello di espressione sono stati minati in Italia, ma voglio ricordare quelli di Flavia Mosca Goretta – giornalista condannata per aver raccontato una manifestazione, e Roberta Chiroli, studentessa condannata per aver utilizzato il pronome “noi” in una tesi di laurea che parlava del Movimento No Tav.
 
Nel mio caso devo dire che una parte significativa dei giornalisti italiani – soprattutto dei giovani e precari – mi ha espresso solidarietà anche avviando una raccolta fondi per sostenere le mie spese legali (raccolta a cura di Agoravox). Credo che il processo a mio carico non sia un processo a Davide Falcioni, o almeno non solo: ritengo invece che sia un avvertimento ai giornalisti italiani “non allineati” alla narrazione mainstream. Credo che un processo sia una misura repressiva in sé, a prescindere dall’eventuale condanna, a tutti quei giornalisti e cronisti soprattutto giovani e precari – spesso senza stipendio - che oggi riempiono le redazioni dei giornali e che sempre di più sono in prima linea nel cercare di ribaltare le narrazioni tossiche.
 
Credo che la costruzione di una rete europea per il diritto al dissenso non possa prescindere dall’avviare una profonda riflessione sul ruolo dell’informazione e credo anche che non si possa prescindere dal costituire un cordone di sicurezza e una campagna di solidarietà nei confronti di giornalisti e mediattivisti colpiti da misure repressive in tutta Europa.
O ci raccontiamo, o veniamo raccontati. Chi dà voce alle ragioni dei migranti, alle vertenze sociali per il lavoro, alle lotte ambientali ha bisogno di sostegno tanto quanto chi quelle lotte le pratica nei territori.
Immagine: freepress.net

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