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Debito pubblico la lunga illusione italiana

Forse l’Europa ha qualche responsabilità nelle crisi finanziaria italiana. Una piccola responsabilità, derivante da un atto di benevolenza: quello di averci ammesso alla moneta unica europea, proprio nel periodo in cui il rapporto fra debito pubblico e Pil, aveva, da non molto, toccato l’apice del 121% (1995). Circostanza che portò un periodo di ravvedimento, fino a discendere a un minimo del 103,9 % (anno 2007) seguito poi dalla sua risalita fino all’ attuale 119 %. 

In queste ore (sulle ali consolatorie del poco cristiano aforisma “Mal comune, mezzo gaudio”) si sottolinea, talvolta con accenti giulivi, che forse gli Usa sono in condizioni peggiori della nostra.

Dimenticando che nel sistema a vasi comunicanti di un economia globalizzata, proprio il moltiplicarsi del dissesto internazionale è motivo di per sé del suo ulteriore generale aggravamento. E senza tenere conto che diverse sono state le cause che hanno determinato i rispettivi bilanci nazionali. 

Negli Usa la conquista definitiva, prima, e la conservazione, poi dell’egemonia mondiale. Da noi invece una costante, illusoria tentazione di evitare la riforma generale dello stato, l’intervento sugli squilibri sociali, la funzione educativa della scuola, pur di mantenere le condizioni di privilegio, e concedere solo quel poco di irrinunciabile alle esigenze della popolazione.

Ricorrendo appunto al comodo ma, in prospettiva, micidiale intreccio dell’inflazione monetaria con l’accrescimento parallelo del debito dello Stato. Una mistura che non poteva reggere con l’ avvento dell’euro, se non forse con una lenta ma costante applicazione di politica di austerità economica.

E sovviene il sospetto che, in sede internazionale, si possa essere già determinata una irresistibile tentazione, e conseguente strategia, di grandi gruppi orientata a una graduale e facile appropriazione del patrimonio pubblico (e anche privato : i piccoli sottoscrittori di Bot e Cct ). 

Lo potrebbe confermare la curva italiana di concentrazione della ricchezza, con la graduale rarefazione delle fasce di reddito della piccola e media borghesia e il suo concentrarsi in mani di numero sempre più circoscritto. 

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