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Dante e Firenze: un rapporto ancora complesso?

Un amore può essere grande ma non incondizionato. Se è vero che Dante non mancava occasione di sottolineare nella sua opera il dolore per la lontananza da quella Fiorenza che riconosceva come luogo delle sue radici, come dolce ostello, è altrettanto noto che non fu disposto ad abiurare minimamente il suo passato, derogando alla fama e all’onore proprio, in cambio di un rimpatrio.

Concetto che mise nero su bianco in una lettera indirizzata ad un amico fiorentino, rifiutando l’amnistia con la quale il 19 maggio 1315 il Comune di Firenze offrì a tutti i fuoriusciti la possibilità di rientrare in città, pagando una multa (oblatio) e riconoscendo in una pubblica cerimonia la propria colpa.

 Cosi’ quel pane altrui che sa di sale, quella vita dura, diremmo oggi da migrante, fatta di “scendere e l’salir per l’altrui scale” fu tollerata pur di salvaguardare un’ innocenza a tutti palese, di non infangare la propria reputazione. “ Non è questa la via di tornare in patria” tuonò il poeta a chiosa della lettera.

Su quale sia però la via di tornare in patria, a distanza di 700 anni, non tutti ancora convengono, almeno tra i fiorentini. La diatriba sembra aver animato la discussione politica in seno a Palazzo Vecchio fino praticamente ai nostri giorni. Nei secoli scorsi si sono susseguite iniziative in memoria del sommo poeta dettate dalla necessità di un risarcimento morale e culturale seppure postumo. Risale però solo al 2008 un vero e proprio atto formale per sanare la faccenda dell’esilio una volta per tutte. Si trattò di una mozione presentata in consiglio dal PDL per chiedere di revocare formalmente il bando con cui Dante Alighieri venne cacciato da Firenze nel marzo 1302, al fine di promuovere una piena riabilitazione pubblica che desse anche il pretesto per avviare un’ampia iniziativa culturale , probabilmente con l’intento di rilanciare l’immagine di Firenze nei media internazionali. Il clima cerimoniale che sembrava dovesse contraddistinguere l’evento, venne appannato dalla contrarietà di alcuni consiglieri di maggioranza. Le cronache del dibattito raccontano di dispute sul Cui Prodest dell’idea, gettata nel calderone dello scontro politico, con accuse reciproche su presunte convenienze, richiami all’attualità dei problemi migratori e altro. La seduta si concluse con l’abbandono dell’aula da parte di alcuni consiglieri, la mozione approvata di stretta misura e la delusione dei discendenti della famiglia Alighieri, coinvolti loro malgrado nella diatriba. In effetti, probabilmente per non alimentare ulteriori polemiche, al di là della mozione in consiglio finita sulle barricate, non ebbe seguito alcuna cerimonia pubblica.

Sulla scorta del rimpianto per la mancata piena riabilitazione, fu nel 2015 il M5S a sollevare nuovamente la questione, ad opera di qualche consigliere forse in cerca di notorietà o per pura passione dantesca, fatto sta che anche in questa occasione non vi fu un pieno consenso, anzi l’amministrazione Nardella non considerò la questione come prioritaria, facendo sapere che non sarebbe stato giuridicamente configurabile un atto formale in tal senso. Ciò suscitò la replica sdegnata dei 5 stelle.

La diversità degli umori nelle reazioni ai processi di riabilitazione storica sembra siano una specificità fiorentina.

Ben diversa accoglienza e unanimismo conobbe infatti l’annullamento della condanna al silenzio ed all’abiura inflitta a Galileo Galilei, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II.

Talvolta anche personaggi più controversi hanno ricevuto la loro riabilitazione storica senza che si registrassero particolari levate di scudi. E’ il caso di Nerone, la cui riabilitazione nel 2010 da parte della giunta comunale di Anzio, la cittadina laziale che ne ha dato i natali, ha contribuito ad un revival di studio e discussione su questa figura rivalutata dalla storiografia recente, come emerge nel libro di Massimo Fini: “ Nerone, 2000 anni di calunnie”.

Ma per rimanere nell’ambito dell’arte poetica, è del 2017 l’ufficiale riabilitazione da parte dell’assemblea capitolina di Ovidio, che morì in esilio nell’8 d.c. per diretto ordine dell’imperatore Augusto, “senza che tale condanna, venisse comminata a seguito di un pubblico processo e ratificata dal Senato romano”, come è stato eccepito nella mozione consiliare, questa volta approvata ad un’unanimità in Campidoglio.

Lo psicodramma del rapporto tra Dante e Firenze potrebbe avere molteplici chiavi di lettura. Possiamo ipotizzare il perpetuarsi di rancori medievali che lasciano strascichi di litigiosità in forma seppur affievolita, l’eterno scontro tra guelfi e ghibellini, un carattere tipico di quelle parti poco incline all’unanimismo, racchiuso nell’ormai consolidato appellativo di “toscanaccio”, o forse un tentativo sottaciuto di considerare un beneficio quell’esilio che non ha impedito a Dante, come lui stesso scrive, di contemplare ovunque le sfere, il sole, gli astri, e sotto la volta del cielo meditare la dolce verità che ha generato versi irripetibili.

Foto di Rhodan59 da Pixabay 

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