• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Mondo > Dall’Iraq al Cile, è lotta globale

Dall’Iraq al Cile, è lotta globale

«Le barricate sono le voci di quelli che non hanno voce», diceva Martin Luther King. In questi giorni le barricate parlano spagnolo, arabo, cantonese, francese o catalano. Da Santiago a Hong Kong, da Beirut a Barcellona, da Algeri a Baghdad, mobilitazioni sociali sono esplose spontaneamente nel corso delle ultime settimane, sfociando nell’occupazione massiccia e immediata delle pubbliche piazze. 

di Vittorio De Filippis, Célian Macé e Nelly Didelot

da Liberation

http://rproject.it/

Le immagini di questa gioventù con il pugno alzato contro i governi presi alla sprovvista dalla repentinità delle insurrezioni, colpiscono per la loro analogia. Al di là di questo mimetismo, accentuato dai riflessi mediatici, cosa hanno in comune queste rivolte del 2019? In realtà, molto.

A ciascun Paese la sua storia, a ciascuna crisi la propria scintilla. L’aumento delle tariffe della metropolitana nella capitale cilena, la tassa su WhatsApp in Libano, la fiammata dei prezzi del carburante in Ecuador o del pane in Sudan…Misure economiche. La legge sull’estradizione a Hong Kong, l’annuncio del quinto mandato di Bouteflika in Algeria, la condanna dei leaders indipendentisti in Catalogna…Cause politiche. Tuttavia, le due cause sono indissolubili. «C’è sempre la goccia che fa traboccare il vaso, ma l’efficacia delle rivolte dimostra sistematicamente che la situazione sociale era già pronta ad esplodere», sostiene Sébastien Roman, specialista di filosofia politica e ricercatore associato all’ENS di Lione.

«Gran parte delle attuali proteste di massa hanno origine nella fase di crisi economica mondiale del 2008, completa il ragionamento Gilbert Achcar, docente di relazioni internazionali e politiche presso la School of Oriental and African Studies di Londra. Non bisogna dimenticare che il 2011 non era solo le primavere arabe, ma anche la Grecia, la Spagna di Podemos, Occupy Wall Street…C’era già un fenomeno di contagio, con un elemento fondamentale in comune: la crisi del paradigma neoliberistico imposto a partire dagli anni ‘80». Il politologo Bertrand Badie, docente presso Sciences-Po, vi vede l’avvento di un «atto II della mondializzazione»«Entriamo nella fase della inter-socializzazione con fenomeni di diffusione e di convergenza dei movimenti di protesta. Le società hanno l’impressione di confrontarsi con le medesime poste in gioco».

 

La torta della ricchezza

 

In questo fine settimana, di nuovo, le rivendicazioni sono risuonate in modo stranamente simile da una capitale all’altra. «Tutti questi movimenti denunciano le ingiustizie, la dominazione sempre più grande di una minoranza sul resto della popolazione, spiega Gus Massiah, figura di punta del movimento alter-mondialista e membro del consiglio scientifico di Attac. Ma esiste un elemento nuovo che sembra attraversare la maggioranza di questi Paesi scossi dal malcontento popolare: la corruzione». Questa è aumentata da quarant’anni con la «fusione della classe politica e di quella finanziaria», puntualizza Dominique Plihon, docente emerito di economia all’università Parigi-XIII. «Questa fusione però non ha eliminato l’autonomia della sfera politica, che risponde sempre più alle esigenze di quelle finanziarie».

Parallelamente, l’aumento delle diseguaglianze è diventato a poco a poco «insopportabile», secondo Gus Massiah: «Ciò non significa per forza che ce ne siano di più. Dipende dai diversi Paesi. Ma queste appaiono ormai insostenibili». Chi divide la torta della ricchezza? Chi ha in mano il coltello? Chi distribuisce le porzioni? Branko Milanovic, ex capo economista della Banca mondiale, è diventato famoso grazie ai suoi lavori sulle diseguaglianze internazionali, che confermano quello che molti manifestanti denunciano. Innanzitutto, durante gli ultimi trent’anni, il 5% dei più poveri del pianeta non hanno ridotto il loro «handicap relativo» poiché, anche se le loro entrate sono aumentate, ciò è avvenuto molto più lentamente rispetto al reddito medio globale. Un secondo gruppo di perdenti, come numero il più importante, è quello che corrisponde grossomodo alle classi popolari e medie dei Paesi ricchi, escluse dalla crescita mondiale. Infine ci sono i vincenti: tra il 1980 e il 2016 l’1% dei più ricchi hanno sottratto il 2% della crescita mondiale totale dei redditi, contro il 13% per i più poveri. «Questa diseguaglianza crescente nella prosperità è un fenomeno che le popolazioni conoscono. I perdenti nutrono sempre di più un sentimento di sfiducia verso la politica, insiste Dominique Plihon. Ora questa sfiducia rimette in discussione la rappresentazione e la delega date alle istituzioni rappresentative».

Il ruolo delle nuove tecnologie e delle reti sociali, incontestabili acceleratori, nel propagarsi delle rivolte non basta a spiegare la loro similitudine. «Il neoliberismo va di pari passo con la perdita di credibilità della politica, osserva Sébastien Roman. C’è un legame evidente tra il disincanto verso la politica e l’occupazione dei luoghi pubblici. Colpisce constatare fino a che punto molti cittadini in Francia, in Libano o in Cile, ripetono la stessa cosa: il piacere e lo stupore di ritrovarsi in tanti, di essere ancora capaci di essere una potenza collettiva».

 

Tripla promessa

 

Da un continente all’altro i rivoltosi condividono alcuni slogan: «Che se ne vadano tutti», scandivano nel 2001 gli argentini che battevano sui tegami per le vie di Buenos Aires, nel momento in cui la crisi brutale annunciava le convulsioni future dell’economia mondiale. «Tutti vuol dire tutti», rispondono oggi i libanesi. Il «sistema», tanto odiato quanto mal definito, è l’obiettivo dei Gilet Gialli francesi come dei rivoluzionari algerini e il «dégagisme»[1] unanimemente rivendicato come un rimedio. «Ci troviamo in un faccia a faccia diretto e che può essere pericoloso, tra la società e le istituzioni, poiché i corpi intermedi (partiti, sindacati, ecc.) non sono più credibili, spiega Bertrand Badie. Adesso c’è uno scollamento totale tra queste due sfere, che non parlano la stessa lingua. Il governo non pensa che in termini di “riforme”, di “misure”, di “concessioni”, di “rimpasti”, mentre i manifestanti si aspettano un cambiamento radicale della società».

Altro punto in comune a tutte queste mobilitazioni: la loro orizzontalità. «Questo pone la questione della loro efficacia, prosegue il ricercatore. I movimenti sociali sono impressionanti ma non sono attrezzati per prendere il potere o negoziare con esso. Il solo esempio controcorrente è il Sudan, dove l’Associazione dei professionisti ha rappresentato la punta di lancia della rivoluzione. Questo è stato d’altronde l’unico Paese dove l’insurrezione ha avuto sbocchi politici concreti». Spesso l’assenza di rappresentanti «esaurisce il movimento», riprende Gilbert Achcar: «Questo può essere un vantaggio all’inizio, ma diventa una debolezza sul lungo termine».

Trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, la tripla promessa di pace, di prosperità e di libertà, implicitamente fatta dopo la vittoria del «campo» capitalista, è stata tradita? «Questa è la grande posta in gioco contemporanea, commenta Sébastien Roman. Il capitalismo e la democrazia liberale non fanno più sognare, ma la maggioranza delle persone continuano a rivendicare mezzi per consumare… Non esistono più ideologie, né utopie concrete da contrapporre al famoso “sistema”».

 

«Clima nazionalistico»

 

Ultimo fenomeno che rappresenta la rimessa in discussione del capitalismo: l’affermazione di movimenti di massa ambientalisti che reclamano anche un cambiamento radicale del sistema economico per preservare le condizioni di vita sulla Terra. Soprattutto presenti nei Paesi occidentali, le marce per il clima e la mobilitazione internazionale di Extinction Rebellion hanno molti punti in comune con le rivolte recenti. Questi nuovi ecologisti credono sempre meno nella possibilità di un dialogo con i governi e puntano sulla disobbedienza civile nonviolenta. Tra le loro fila, si ripete in modo martellante che la risoluzione della crisi ambientale deve andare di pari passo con quella della crisi sociale, che una società ecologicamente durevole dovrà essere meno diseguale. Ma fino ad ora, con l’eccezione dei tentativi francesi di convergenza tra ecologisti e Gilet Gialli sul tema «fine del mese, fine del mondo, stessa lotta», i punti di incontro sono rimasti poco numerosi.

Se le rivolte sociali sono la «traduzione di sinistra» della frustrazione prodotta dalla globalizzazione, la crescita dei nazionalismi e delle rivendicazioni identitarie (regionali, religiose, comunitarie) rappresenta la «risposta dell’estrema destra», sostiene Gilbert Achcar.

«Che sia in Francia, in Algeria o in Catalogna, le manifestazioni si svolgono in un’atmosfera nazionalistica molto forte, ricorda anche Bertrand Badie. La questione della paura, dell’angoscia, dell’incertezza, è fondamentale per comprendere questo fermento sociale». La crisi della democrazia rappresentativa crea un «vuoto politico riempito da un campo o da un altro» continua Gilbert Achcar: «Non sappiamo ancora chi vincerà. Una nuova sinistra radicale è in gestazione. Il fenomeno Trump ha nascosto l’evento più incredibile della storia recente degli Stati Uniti: il successo di Bernie Sanders, che era impensabile ancora qualche anno fa».

A forza di moltiplicare le barricate, «quelli che non hanno voce» cominciano a sentirsi, anche se ancora non vengono compresi. «Occorre cogliere le sfumature, si possono distinguere diversi gradi di profondità della crisi a seconda degli Stati, osserva il politologo. In Europa, per esempio, sarà complicato ma il potere ha la capacità di riformarsi. In molti regimi arabi, questo è del tutto impossibile: la contestazione allora assume delle forme a volte tragiche». Nel corso del mese di ottobre 200 manifestanti pacifici sono stati uccisi a Baghdad, 67 in Etiopia, 8 a Conakry, 5 a Santiago.

 

Haiti: penuria di carburanti

Inizio della contestazione: 2 settembre

Tutto è iniziato con la penuria di carburanti, che si è aggiunta all’inflazione e alla stanchezza di fronte alla corruzione, in un Paese in cui due abitanti su tre vivono sotto la soglia della povertà. I manifestanti vogliono le dimissioni del Presidente, Jovenel Moise, un uomo d’affari sospettato di arricchimento illegale. Almeno 19 persone sono morte ai margini delle manifestazioni e vi sono stati saccheggi dei negozi.

 

Cile: la rivolta del métro

Inizio della protesta: 18 ottobre

Dopo violenti scontri tra polizia e manifestanti dopo l’aumento del prezzo della metropolitana a Santiago, centinaia di migliaia di persone sfilano ogni giorno per rivendicare prima di tutto giustizia sociale. È stato instaurato il coprifuoco nella capitale e l’esercito è stato mandato nelle strade per ripristinare l’ordine, cosa mai vista dai tempi della dittatura di Pinochet (1973-1990). Domenica il presidente Sebastian Piñera ha promesso un rimpasto totale del governo.

 

Iraq: il «governo dei ladri»

Inizio delle proteste: 1° ottobre

Nel solco delle Primavere arabe, le piazze irachene si sono sollevate per chiedere «la caduta del regime», giudicato corrotto e inefficiente. La repressione è particolarmente brutale: oltre 200 persone sono state uccise e 8.000 ferite. Ma i rivoltosi continuano ad occupare l’emblematica piazza Tahrir di Baghdad.

 

Libano: la scintilla WhatsApp

Inizio della protesta: 17 ottobre.

Dopo dodici giorni, i libanesi manifestano quotidianamente in un’atmosfera festosa e unitaria, in tutto il Paese. Il detonatore è stato l’annuncio di una nuova tassa sulle chiamate di messaggeria WhatsApp. Questa è stata ritirata rapidamente, ma il movimento, senza precedenti, ormai pretende l’uscita di scena della classe politica al potere.

 

 

Sudan: la caduta di Al Bashir

Inizio delle proteste: 19 dicembre 2018

Dopo molti mesi di una rivolta eroica, la popolazione ha cacciato il dittatore che regnava da tre decenni. I civili, successivamente, hanno lottato contro i militari golpisti perché accettassero di restituire il potere. Alla fine è stato siglato un accordo di compromesso su un periodo di transizione di tre anni.

 

Hong Kong: la fronda contro Pechino

Inizio della protesta 9 giugno.

Un progetto di legge che autorizza l’estradizione verso la Cina continentale ha dato fuoco alle polveri. Delle manifestazioni oceaniche (fino a due milioni di persone) hanno bloccato Hong Kong, facendo sprofondare la ex colonia britannica in un’inedita crisi politica. Il progetto è stato sospeso, ma gli abitanti di Hong Kong continuano a denunciare le limitazioni delle libertà e la sempre crescente intromissione di Pechino.

 

Traduzione dal francese di Cinzia Nachira

Qui l’articolo in versione originale: 


[1] È un termine intraducibile in italiano che si riferisce allo slogan «Dégage», ossia: «Vattene!» gridato nelle vie della Tunisia contro il dittatore Ben Ali all’epoca della rivolta del 2010-2011 alla fine della quale fu costretto a fuggire in Arabia Saudita. Il neologismo si spiega con il fatto che fu ripreso a livello internazionale e non solo in altre piazze arabe attraversate dalle rivolte che nel 2011 detronizzarono diversi dittatori. Anche in Italia, durante molte manifestazioni contro Berlusconi e il suo governo dell’epoca lo slogan «Dégage!» fu scandito e non solo per solidarietà verso le contemporanee manifestazioni in Tunisia, ma anche perché quello era l’obiettivo delle manifestazioni nel nostro Paese: cacciare Berlusconi e il suo governo. N.d.T.

Foto: Danahe Oñate/Flcikr

 
Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità