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Contro-Amaca, o del determinismo tecnologico di Michele Serra

«Era come se il mezzo (che mai come in questo caso è davvero il messaggio) generasse un linguaggio totalmente binario, o X o Y, o tesi o antitesi», scrive Michele Serra nell’Amaca odierna, raccontando l’esperienza della «visione di un programma tivù in compagnia di un amico» intento a leggere e leggergli «quasi in diretta» la relativa «gragnola di commenti su Twitter». Che suscitano in Serra una riflessione amara: «Nessuna sintesi possibile, nessuna sfumatura»: solo un «puerile scontro tra slogan eccitati e frasette monche.» Conclusione? Solo lontano da «quel cicaleccio impotente» si impara a dialogare, ascoltare, ragionare. «Dovessi twittare il concetto, direi: Twitter mi fa schifo. Fortuna che non twitto».

Ma la riflessione di Serra, corretta nell’individuazione dei sintomi, sbaglia diagnosi. E la sbaglia perché viziata da un difetto all’origine: l’idea che sia il mezzo a generare necessariamente quel linguaggio di contrapposizione binaria, un po’ urlato e un po’ lapidario, che impedisce un confronto costruttivo. E’ l’altro lato del determinismo tecnologico che abbiamo imparato a conoscere, e criticare, in chi sostiene che – sempre e comunque – più Internet uguale più democrazia, e che la Rete abbia un potere intrinsecamente liberatorio e salvifico. Un cyber-utopismo alla rovescia, in altre parole, in cui più Internet significa invariabilmente più insulti, più contrapposizioni «totalmente binarie» o, a seconda delle varianti, più menzogne incontrollabili.

Posizioni pericolose, come ha efficacemente argomentato Evgeny Morozov in L’ingenuità della rete’. Perché ignorano l’importanza del contesto in cui Internet si diffonde, e di capire quali sue caratteristiche abbiano quali effetti in quale tipo di società. Perché, soprattutto, riducono i cittadini digitali a una massa indistinta di automi che reagiscono agli stessi stimoli con le stesse risposte, ignorandone le differenze. Lo stesso vale per Twitter: nelle mani di un dittatore è uno strumento per controllare in tempo reale il dissenso, e reprimerlo; in quelle di un attivista, un modo per contrastarne l’azione. Ancora, è lo stesso mezzo che brucia le agenzie e moltiplica le possibilità del citizen journalism e, allo stesso tempo, consente a notizie non verificate di fare il giro del globo in pochi secondi.

Ma non è una questione di caratteri: lo dimostra il fatto che anche su Facebook, dove si può scrivere quanto si vuole, si riproduca quello scontro manicheo tra buoni e cattivi, eroi e tiranni, amici e nemici che tanto ha colpito Serra. Perché? Io credo, nel caso specifico, la risposta sia che a usare Twitter e Facebook sono gli stessi italiani che da vent’anni – e forse molto di più – concepiscono la politica come un’appendice della tifoseria della domenica, i problemi come risolvibili a colpi di slogan e il confronto come una serata infinita al bar. E’ demerito loro, e nostro, se strumenti di dialogo e condivisione come Twitter e Facebook sono diventati – come giustamente nota Serra – terreno di conquista per il narcisismo e il solipsismo: non di Twitter e Facebook.

Si può «imparare a leggere e scrivere» anche a colpi di 140 caratteri. Basta farlo senza pregiudizi. In fondo, sono sempre loro a uccidere la cultura.

(Foto: Raimondo Grillo Spina)

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