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Compagni o no? Non è questo il dilemma

Fabrizio Gifuni ha concluso il discorso contro i tagli alla cultura da parte del governo, che ha tenuto durante la manifestazione organizzata dal PD al Palalottomatica di Roma, salutando la platea con un " care compagne e compagni" che ha suscitato le proteste dei militanti che non si riconoscono nella tradizione socialista e comunista.

Compagni o no? Non è questo il dilemma

Un gruppo di giovani è arrivato a scrivere una lettera al segretario Bersani sottolineando che: "Le parole compagni, festa dell’Unità, sono concetti che rispettiamo per la tradizione che hanno avuto ma che non rientrano nel nostro pensare politico e che facciamo fatica ad accettare... questo trapassato non ha noi come destinatari".

“E’ tanto che volevo dirlo”, ha sfumato l’attore, recente interprete del ruolo di Alcide de Gasperi, ma la sua ansia di usare quella parola, “compagni”, che pure è stata simbolo del sogno di tanti italiani di costruire una società migliore, è paradigmatica dell’incapacità di tanta parte della nostra politica – e non solo della politica, evidentemente – di comprendere quali siano i veri termini della lotta che sta dividendo, nel 2010, le società occidentali.

La fine dello scorso millennio e l’inizio di questo verranno ricordati, nei manuali di storia della filosofia, come l’epoca che ha segnato la morte di due ideologie o meglio l’epoca in cui si è avuta la dimostrazione - temo non definitiva – che né comunismo né capitalismo contenevano tutte le risposte ai problemi posti dallo sviluppo sociale ed economico.

Oggi nessuno che sia intellettualmente onesto, che provenga dalla tradizione social comunista o da quella liberista, ritiene di avere in saccoccia la ricetta per gestire una società complessa come quella in cui viviamo; ancora meno si può pensare di governare l’economia mondializzata delle multinazionali con formule sviluppate secoli or sono.

Sulla morte del comunismo, confondendo l’applicazione sovietica con l’ideologia e il leninismo con il marxismo, si sono spesi, il più delle volte a sproposito, fiumi di parole.

La morte del capitalismo classico è avvenuta con altrettanta certezza, ma con infinita meno pubblicità.

Dopo il grande crack finanziario di cui ancora stiamo pagando le conseguenze parlare di libero mercato nei termini del liberismo puro non ha più il minimo senso: il mercato non si regola da solo, o perlomeno non con costi accettabili dalla società nel suo complesso.

Le ricette di Adam Smith, inoltre, si rivelano sempre più inadeguate per dar conto di fenomeni economici che il fondatore del pensiero economico liberista non poteva certo prevedere.

I produttori di aghi del suo “saggio sulla ricchezza delle nazioni" operavano su un mercato che presentava barriere all’ingresso minime, per esempio, mentre per iniziare a produrre alcuni dei beni chiave dell’economia moderna servono capitali che sono alla portata solo dei più ricchi stati sovrani.

Oggi sappiamo con certezza che fine ultimo della libera competizione è il monopolio e che, una volta raggiunto, è impossibile a nuovi attori entrare su mercati che richiedono masse immense di capitale di rischio e di conoscenza. Un buon esempio di questo è il mercato degli aerei a lunga percorrenza; senza l’invenzione di Airbus da parte di una compagine di paesi europei ci sarebbe oggi al mondo un solo produttore: Boeing.

La differenza tra destra e sinistra è dunque diventa questione di accenti e di sensibilità, non di scontro tra dogmi.

Non resta quasi nessuno a sinistra che creda che la proprietà privata vada abolita e pochissimi hanno da ridire sulla possibilità, per un imprenditore, di guadagnare un onesto profitto, come pure nessuno a destra può sostenere che il mercato non abbia bisogno di regole e che non vadano posti limiti all’accumulazione di ricchezze da parte di individui e società commerciali.


Resta il confronto tra chi crede che si garantisca meglio il progresso dell’umanità con un equa distribuzione delle ricchezze e chi crede che la competizione sia il meccanismo fondamentale per produrle, in primo luogo, le ricchezze da ridistribuire, ma appunto di confronto si tratta, tra grigi di una scala dalle infinite sfumature, non di un opposizione tra bianco e nero.

Nella prassi politica delle democrazie europee è difficile, solo in base alle decisioni prese, distinguere ormai tra governi di destra e di sinistra: Zapatero non ignora certo le esigenze del mercato come Angela Merkel è tutt’altro che insensibile alla necessita di garantire, con la solidarietà, la coesione sociale. I successi, ed i limiti, dell’azione di ognuno dei due hanno più a che vedere con la struttura di fondo dei paesi che si trovano a governare che con il loro essere socialista o liberale.

Non ci sono però Merkel o Zapatero nel nostro Paese; c’è Silvio Berlusconi.

Il Presidente del Consiglio e tanti dei suoi elettori sembrano vivere, a prender per buone le loro parole, in un’altra dimensione: un universo parallelo dove torme di feroci comunisti mangiatori di bambini cavalcano selvaggi in attesa che la fortezza della civiltà occidentale mostri il minimo segno di cedimento.

L’anticomunismo è uno dei temi forti del loro messaggio politico, anzi il loro unico messaggio politico: il resto dell’armamentario ideologico del maggior partito della destra italiana si riduce alla fede nelle doti soprannaturali del Capo – per fortuna che Silvio c’è – e nelle sue virtù taumaturgiche.

Quanto questo anticomunismo sia puramente strumentale è talmente evidente – lo stesso Berlusconi si vanta della sua amicizia con l’ultimo Rezident del KGB a Berlino – che stupisce quanto ancora riesca ad ingannare, distogliendone l’attenzione da altre e ben più rilevanti considerazioni, tanta parte dell’elettorato.

I tempi sono comunque più che maturi, specie in Italia, per definire una nuova geografia della politica; una definitiva presa di coscienza che non è più quella tra liberali e socialisti la divisione fondamentale delle società dei paesi sviluppati.

La grande frattura che si sta aprendo è quella tra libertari e no, tra chi vorrebbe un governo “forte” e chi vuole che invece l’esecutivo sia sempre sotto stretto controllo, tra chi invoca in continuazione misure d’emergenza e chi le ripudia, se non nelle circostanze più tragiche.

E’ la frattura tra democratici convinti e democratici tiepidi o addirittura indifferenti; tra chi comprende che i diritti sono tali solo se vengono rivendicati ogni giorno e chi crede che siano acquisiti per sempre: che possano resistere all’incuria di chi della cosa pubblica, in fondo, non vuole saper niente.

E’ l’opposizione tra chi vuole partecipare alle decisioni fondamentali per il futuro della società e chi ha altro da fare, altri interessi, altre preoccupazioni e si fida di coloro che ha eletto – se ancora si prende il disturbo di andare a votare – perché siano loro a risolvere qualunque problema.

La divisione tra socialisti e liberali non ha più il senso che ha avuto nella storia; oggi si tratta di resistere, o di cedere, alle forze che stanno trasformando sempre più cittadini in gente, in popolo: in una massa cioè indistinta di persone che se ha ancora dei diritti non ne ha però coscienza e che della vita, non solo politica, è mera spettatrice.

Sono un compagno o no? Ognuno di noi si è già risposto a questa domanda, nella propria coscienza, e quella risposta conserva la sua validità, ma oggi dobbiamo prima di tutto chiederci: sono un cittadino o sono gente?

Le altre differenze, tutte, vengono dopo. Molto dopo.

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