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 Home page > Tribuna Libera > Catania, la tragedia e il lavoro che non c’è

Catania, la tragedia e il lavoro che non c’è

L’ennesima tragedia…speriamo che si salvi, si è consumata questa mattina a Catania.

L’ennesima tragedia (speriamo che si salvi) si è consumata venerdì scorso a Catania. Un disoccupato edile, un ex manovratore di escavatore, di 56 anni, con famiglia – due figli adolescenti –, si arrangiava, in maniera non conforme, cercando di vendere con un piccolo banco improvvisato prodotti ortofrutticoli in una piazza della città (Piazza Risorgimento). All’arrivo della polizia municipale, per protesta all’imminente sequestro, si allontana verso il vicino distributore di carburante, compra benzina in una bottiglia, si cosparge il corpo e si dà a fuoco. Ora le sue condizioni sono gravissime. Un altro ulteriore dramma della disperazione si abbatte sulla città e la Sicilia.

Certo, è pur vero, anche il decoro e la legalità della città devono essere salvaguardate. Ma chi deve garantire l’esigibilità dell’art. 1 della Costituzione che solennemente recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro"? Domanda tremenda, che ricade su tutti i nostri governanti, di qualsiasi livello gerarchico. La Legge fondamentale dello Stato colloca al primo posto il diritto fondamentale dei cittadini di avere riconosciuto, tramite il lavoro, la possibilità elementare di poter vivere, lui e la sua famiglia, con dignità e decoro, nella legalità. È la priorità assoluta della civiltà democratica e della coesistenza sociale. In caso diverso, sono dolori grandi per gli interessati. Inimmaginabili, per coloro che rappresentano lo Stato nelle sue varie funzioni ed articolazioni, per i soggetti che vivono tranquillamente la loro “sufficienza” e per le parti sociali che ancora teoricamente si riconoscono nel “patto universale” fondativo della nostra Repubblica.

L’angoscia di “non potere portare il pane a casa” è lancinante, foriera di qualsiasi atto. A Catania (ma non solo) grande è la sofferenza della disoccupazione. Si è accresciuta a dismisura nel corso dell’ultimo decennio, in maniera sempre più dirompente. Sono esplose le attività al nero e i precariati. Un termometro di forte valenza è ben visibile nelle strade cittadine. Una grande pletora di presenze cercano di affrontare la quotidianità espletando mille arti e mestieri nella vendita di prodotti vari, in specie ortofrutta. E, non solo questo, c’è anche ben altro. Certo, per le tante ragioni in essere, non hanno regolare licenza. Comanda “l’istinto della sopravvivenza” che, necessariamente, prevale su ogni cosa.

Eppure, da cittadino, lavoratore ed (ex) sindacalista mi ricordo bene che per tutto il corso degli anni '70 e '80, (del novecento) e buona parte degli anni '90, non è stato così. Anche da noi c’era il lavoro. Quello vero, che permetteva di guardare al futuro. Non in quantità “esagerata”, tant’è che le migrazioni - quelle che da tempo sono riprese forti - ci sono sempre state. Le postazioni stradali di “accomodamento” - giusto per fare un esempio sulla difficile arte dell’arrangiarsi -, di vendite improvvisate, erano in un numero molto meno consistente. Fino alla metà degli anni '90 c’era una rilevante zona industriale (più di una di fatto), costituita da tante piccole e medie realtà produttive. Grandi aziende, anche di considerevole peso tecnologico e d’ambito nazionale, operavano alacremente. Molti siti, di servizi attivi, le affiancavano. L’attività edilizia, pur con tante pesanti e laceranti contraddizioni, è sempre stata un grande volano per avere lavoro e reddito. Le attività commerciali, spicciole, diffuse in molte decine di migliaia, in tutto il territorio. Ora, in gran parte tutto questo è stato cancellato. Sono rimasti ben pochi poli di eccellenza.

La popolazione della provincia si attesta ad oltre un milione di abitanti. In tanti sono proprio alla “frutta”. La povertà, le sofferenze, le diseguaglianze, sono cresciute a dismisura. I tanti quartieri emarginati, quelli dei reietti, sono sempre più isolati. Loro se la cantano e Loro se la suonano. In tanti soli con la propria disperazione. Le forze politiche rimaste nominalmente operative sono silenti. Le strutture sindacali risultano complessivamente marginali. Non c’è più il senso corale del coinvolgimento plurale. Data la grande incertezza sempre più prevalente sono prevalsi i corporativismi, frantumati gli obiettivi sugli interessi primari comuni. La platea dei “benpensanti”, sazi della propria quotidianità, protestano per l’“indecenza”, a loro dire, che i poveri, scarti sociali, riversano in tanti modi sulla città. Disturba “l’arte” di arrangiarsi che scompagina il “decoro civico”, i tanti (indigeni e migranti) senza tetto che dormono tra i cartoni, che chiedono l’elemosina, cercano nei cassonetti della spazzatura, o stanno a speranza della carità per ritagliarsi un piatto di minestra. Una grande disfatta democratica, civile e sociale.

In questo contesto si ha la perversione di tenere fermi notevolissimi volumi finanziari di investimenti destinati alla città e alla sua provincia, disponibili per dare conforto di lavoro a tanti disoccupati, in specie delle attività edili e metalmeccaniche. Nei tanti segmenti progettati un solo esempio su tutti. Ben 600 milioni di euro nell’aprile 2012 sono stati destinati dal CIPE (a seguito delle ingiunzioni giudiziarie della Comunità europea) per realizzare le necessarie infrastrutture di fognature e depurazione delle acque reflue. Riguardano molte località dell’area del catanese, in particolare Catania centro. A data odierna c’è in atto la terza ed ultima proroga (scade a fine settembre) finalizzata alla realizzazione dei progetti cantierabili. Tutto ancora tace! Eppure, in tanti piangono... tra i clamori dei gaudenti. Speriamo che si salvi il nostro padre di famiglia datosi fuoco venerdì, da tutti abbandonato.

 

Foto: Francesco Pappalardo, Flickr

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