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Catalogna, verso un referendum d’indipendenza che non si terrà

Alla fine dell’estate del 2012, alla crisi economica e sociale che stava colpendo duramente la Spagna si è sommata la crisi territoriale: l’11 settembre, festa nazionale catalana, un milione di persone invasero pacificamente le strade di Barcellona chiedendo che la Catalogna diventasse “un nuovo Stato d’Europa”.

A monte vi era stata la sentenza del Tribunale Costituzionale spagnolo del giugno del 2010 che giudicò anticostituzionali alcuni articoli del nuovo Statuto d’Autonomia catalano approvato nel 2006.

Dal 2012 sono passati quasi cinque anni, alla crisi economica e sociale si è aggiunta anche quella politica e istituzionale – che ha portato all’abdicazione del re Juan Carlos I e alla fine del bipartitismo, con l’ingresso in Parlamento di Podemos e Ciudadanos –, ma per quanto riguarda la Catalogna apparentemente poco è cambiato. La rivendicazione indipendentista della ricca regione del nord-est spagnolo (19% del Pil del paese, 7,5 milioni di abitanti) continua ad essere una questione non risolta della politica iberica. Il dialogo tra i due governi è stato praticamente assente e ha permesso che l’indignazione di quel 2012 – che era frutto, in realtà, soprattutto della gestione della crisi e delle politiche di austerity – si trasformasse in una frattura difficilmente ricostruibile.

I fatti delle ultime settimane ne sono la prova. Il presidente della Generalitat catalana, Carles Puigdemont, ha annunciato che il prossimo 1 ottobre si terrà un referendum di autodeterminazione in cui si domanderà se si “vuole che la Catalogna sia uno stato indipendente in forma di repubblica?”. Si tratterebbe di un referendum unilaterale, poiché non accordato con il governo dello Stato come nel caso scozzese, e dunque illegale, poiché non è contemplato dalla Costituzione spagnola, come nella stragrande maggioranza dei paesi del mondo. Per il momento si tratta solo di un annuncio, non esiste nessun atto giuridico firmato dal governo regionale, ma non sembra che a Barcellona si voglia fare dietro front.

In realtà, poco o nulla si sa di come verrebbe organizzato il referendum: non esiste né un censo, né una giunta elettorale, né l’imparzialità del governo regionale, condizioni imprescindibili secondo la Commissione di Venezia – l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che si occupa delle questioni relative alla democrazia e al diritto – perché un referendum possa celebrarsi, oltre alla convocatoria del referendum con un anno di anticipo e al rispetto della Costituzione del paese. Manca poi, al di là delle continue dichiarazioni del governo regionale, qualunque garanzia per i funzionari pubblici che potrebbero venire sospesi o multati dal governo spagnolo nel caso in cui collaborassero nella realizzazione del referendum. Il governo spagnolo è infatti già intervenuto in questo senso, portando all’inabilitazione da parte del Tribunale Costituzionale del precedente governatore catalano, Artur Mas, e di altri tre membri del suo governo per l’organizzazione del referendum del 9 novembre del 2014, una specie di macro-sondaggio senza alcun valore legale, in cui votarono a favore dell’indipendenza poco più di 1.800.000 persone, pari a meno del 30% degli aventi diritto.

Per ora vi è grande incertezza sui possibili scenari futuri. Secondo il governo catalano non ci sono dubbi: il referendum si terrà in ogni caso per rispettare il “mandato democratico” delle elezioni regionali del settembre del 2015, presentate come una sorta di plebiscito a favore dell’indipendenza, che diedero una maggioranza in seggi – ma non in voti – alle formazioni indipendentiste. In realtà, nel programma elettorale degli indipendentisti non si faceva riferimento a un referendum, ma a una legislatura eccezionale di 18 mesi al termine della quale si sarebbe dichiarata l’indipendenza e votata una nuova Costituzione. I 18 mesi sono già terminati e nulla è stato fatto.

Il referendum, che una maggioranza della popolazione vorrebbe solo nel caso fosse accordato con lo Stato spagnolo, è ricomparso sulla scena politica nel settembre dello scorso anno, quando il presidente Puigdemont ha dovuto superare una mozione di sfiducia per tensioni interne alla sua stessa maggioranza, formata da una grande coalizione patriottica, Junts pel Sí (JxS), che riunisce la destra del Partit Demòcrata Europeu Catalá (PDeCAT) – che non è altro che il tentativo di rifondazione di Convergència Demòcratica de Catalunya (CDC), partito al governo per 28 anni in Catalogna, colpito ora da innumerevoli casi di corruzione – e il centro-sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), insieme a un partito anticapitalista indipendentista, la Candidatura d’Unitat Popular (CUP).

Il piano, assai improvvisato, del governo catalano prevede a fine agosto l’approvazione della legge di transitorietà giuridica – dopo la riforma del regolamento del parlamento per permetterne la votazione senza che le opposizioni ne conoscano previamente il testo e possano presentare emendamenti – e a inizio settembre la convocazione ufficiale del referendum, approfittando della Diada, la festa nazionale dell’11 settembre, per iniziare la campagna elettorale. Al di là del whisful thinking dell’esecutivo catalano, è quasi impossibile però che il referendum si celebri: il governo spagnolo ha ribadito ancora una volta che userà tutti i mezzi necessari che gli fornisce la Costituzione e lo stato di diritto per impedirlo, iniziando dagli interventi del Tribunale Costituzionale che comporterebbero l’inabilitazione dei membri del governo regionale.

È evidente che, trovandosi in un cul de sac dal quale non sa come uscire, l’indipendentismo ha deciso di accelerare per provocare una reazione del governo spagnolo nella speranza di internazionalizzare la causa catalana. Ma, anche se le formazioni indipendentiste dichiarano che il governo spagnolo è “autoritario” e “antidemocratico” come la Turchia di Erdogan – una comparazione assolutamente fuori luogo –, è piuttosto improbabile che le istituzioni europee intervengano nel contenzioso che giudicano “una questione interna del Regno di Spagna”.

L’1 ottobre, dunque, si terrà probabilmente una grande manifestazione, una nuova performance dell’indipendentismo che servirà per rafforzare il proprio zoccolo duro in vista di nuove elezioni regionali. Sarà lì che si giocherà la vera battaglia: una lotta per l’egemonia politica che potrebbe scompaginare le carte in tavola. Gli indipendentisti sperano di ottenere una maggioranza parlamentare per obbligare il governo spagnolo a sedersi al tavolo delle trattative, ma, come abbiamo visto nel Regno Unito, non sempre i desideri si trasformano in realtà. Le elezioni ormai sono un terno al lotto. Il panorama politico è, infatti, molto frammentato e il nuovo partito catalano della sindaca di Barcellona Ada Colau, Catalunya en Comú, che difende, oltre a una democratizzazione della politica e a un’agenda sociale radicale, un referendum accordato con lo Stato spagnolo, potrebbe modificare la correlazione di forze. In ottobre, succeda quel che succeda, terminerà una fase della politica catalana e ne inizierà una nuova. Come sarà questa nuova fase, però, è ancora un’incognita. E molto, checché ne dicano gli indipendentisti, dipenderà dalla situazione politica spagnola in cui molte cose potrebbero cambiare nei prossimi mesi..

Commenti all'articolo

  • Di AlexStorti (---.---.---.32) 5 luglio 2017 00:29

    Il conteggio dei 18 mesi è partito dall’insediamento del governo, quindi dal gennaio 2016: scadenza settembre 2017, per cui siamo nei termini promessi. I dettagli giuridici del referendum sono stati dati oggi 4 luglio, come garantito dal governo catalano, quindi non si voterà al buio. La consulta non referendaria del 9 Novembre 2014 non è stata affatto un mero sondaggio, bensì la base politico-giuridica su cui si regge l’attuale mandato separatista della maggioranza votata nel settembre 2015. Il 1º Ottobre si voterà, e così come accaduto nel referendum costituzionale spagnolo del ’78, conteranno i voti dei votanti, non quelli degli assenti. Quindi evitiamo di rapportare i Sì del 2014 (e quelli che risulteranno nel referendum del 2017) al totale degli aventi diritto: altrimenti gli attuali uomini con la valigetta nucleare di USA e Francia, Trump e Macron, solo per fare due esempi, risulterebbero meno legittimati democraticamente parlando di molti sindaci di microcomuni montani... In definitiva: nel cul de sac ci è ormai finita la Spagna, mentre la Catalogna è in marcia verso la Repubblica. Con buona pace dell’estensore di questo articolo.

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