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Avere come l’impressione di essere morto vecchio (Recensendo una recensione ad Enrique Vila-Matas)

di Gianfranco Pecchinenda

 

Lo scrittore catalano Enrique Vila-Matas ha appena pubblicato un altro libro, dal titolo Chet Baker piensa en su arte (Random House Mondadori, Barcelona 2011). Una raccolta di racconti tra cui spicca, dando anche il titolo all’intero volume, quella che, più che un vero e proprio racconto, può essere considerata una sorta di “Fiction critica” (come egli stesso la definisce), ovvero un modo per proporre riflessioni e appunti sulla letteratura attraverso lo strumento della fiction. Operazione non nuova, ovviamente, comune peraltro a molti grandi intellettuali del nostro tempo.
 
Lo stesso scrittore argentino Ricardo Piglia, recensendo proprio Dublinesca, un altro importante e recente romanzo dello stesso Vila-Matas, ha compiuto a sua volta, e con la sua solita grande maestria, un’operazione molto simile, dando così vita a una sorta di mise en abime che potrebbe essere prolungata all’infinito. Vediamo in che senso: il protagonista di Dublinesca si chiama Samuel Riba, è morto, ma è anche vivo. È un eroe che, nel corso della narrazione, ripercorrendo alcune fasi della nostra storia culturale, riflette su questioni ritenute particolarmente significative per la formazione del mondo occidentale: insomma un vero e proprio topos. Mentre legge Dublinesca – il cui titolo rinvia evidentemente a James Joyce – Ricardo Piglia nota alcuni elementi che gli ricordano un altro grande scrittore irlandese – Samuel Beckett – e passa a citare una splendida frase presente in Le Calmant (il primo testo di Beckett scritto direttamente in francese): “Non so più quando sono morto. Ho sempre avuto come l’impressione di essere morto vecchio” (Je ne sais plus quand je suis mort. Il m’a toujours semblé être mort vieux).
 
L’analogia con Samuel Riba, il quale – come appena ricordato – è appunto un morto-vivente, è quindi più che comprensibile. L’eroe vilasmatiano, portandosi dietro tutta l’inesorabile malinconia propria della categoria dei “vivi-ma-morti”, ripercorre la grande capitale irlandese in compagnia di un gruppo di amici per celebrare al contempo Joyce e la triste ricorrenza della morte della letteratura.
Lasciando da parte le riflessioni di Piglia sulle straordinarie capacità di Vila-Matas di raccontare, attraverso uno stile al contempo nostalgico e ironico, storie di così grande importanza per la letteratura occidentale, veniamo dunque al Chet Baker piensa en su arte. In questa splendida e, come al solito, originale narrazione “critico-fictionale”, l’oggetto centrale della riflessione, in perfetta sintonia con quanto elaborato in Dublinesca, è quello, delicatissimo, della sostenibilità o meno dell’ordine narrativo tradizionalmente riservato dalla letteratura alla descrizione dell’esistenza. “Ci tranquillizza – scrive Vila-Matas introducendo il suo lavoro – la semplice sequenza, l’illusoria successione dei fatti. Ciononostante, c’è una grande divergenza tra la confortevole narrazione e la brutale realtà del mondo”. Come diceva Robert Musil – il quale già ai suoi tempi pensava che nel mondo non fosse oramai più presente quella semplicità inerente all’ordine tradizionale del raccontare – tutto è diventato adesso non-narrativo. Il mondo stava già allora, evidentemente, cominciando a diventare plurale, multidimensionale, frammentario e, soprattutto, senza senso: un universo attraverso il quale difficilmente sarebbe stato oramai più possibile approssimarsi a un assetto sociale ed esistenziale equilibrato, misurabile, prevedibile come quello dell’ordine socioculturale ipotizzato agli albori della modernità occidentale.
 
Eppure Vila-Matas riconosce di non trovarsi del tutto a suo agio con una tale posizione: se è vero che si è verificato un vero e proprio divorzio tra la narrazione della realtà e la sostanziale “inenarrabilità” di quest’ultima – sostiene, senza alcun timore di poter eventualmente esporsi al rischio di clamorose contraddizioni – egli sembra altrettanto convinto del fatto che ci troviamo in una fase di progressiva rinascita della narrazione e della narrabilità dell’esistenza che si colloca sempre più al centro della scena culturale. “Ovvero – egli scrive – così come credo che la non narratività (almeno dal punto di vista formale) di Finnegans Wake di Joyce sia arte pura, considero allo stesso modo sommamente artistico, ad esempio, un libro così pieno di ingegno narrativo quale è Il fidanzamento del signor Hire (Les fiancailles de Monsieur Hire) di Georges Simenon”.
 
La questione, come dicevo, è in effetti molto delicata: Beckett sosteneva che gli scrittori realisti dessero vita ad opere discorsive perché interessati a parlare delle “cose” o sulle “cose”, mentre invece l’autentica arte dovrebbe essere riferita alla “cosa stessa”. Certo, come ricorda ancora Vila-Matas, la rotta seguita da Finnegans è evidentemente più nobile, più affine al linguaggio caotico della realtà e a “quel vago fluttuare delle nostre vite” di cui parlava Kafka; ovvero, più affine alla realtà barbara e muta, senza significato, delle cose. Il punto, insomma, sembra essere proprio questo: la discrepanza tra la rassicurante narrazione della realtà e la selvaggia verità che essa potrebbe rivelare se ci lasciassimo trascinare da una modalità più istintuale e meno confortevole di manifestazione artistica.
 
I mondi che così abilmente Enrique Vila-Matas intende mettere in discussione diventano dunque quelli della realtà muta e inenarrabile, profonda e fantasmatica; che riguardano sia gli individui che le collettività, sia la realtà del presente sia quella del passato, sia i cosiddetti mondi interiori sia quelli esteriori, sia quelli soggettivi sia quelli oggettivi. In un certo senso, riflettendoci bene, la storia della letteratura è sempre stata, fin dai suoi esordi, la storia di una ribellione costante e continua contro le leggi e le forme inventate e in qualche modo trasmesse dalla tradizione letteraria stessa; rappresentativa, se vogliamo, delle definizioni più comuni del senso comune.
 
Il valore di un’opera d’arte, in fondo, più che dalla sua utilità, dovrebbe essere determinato dalla sua capacità di liberarci da quei modi di pensare, di sentire e di agire che il senso comune rende molto simili a dei veri e propri automatismi. Da qui l’assoluta centralità, per ogni artista, di riuscire a saper rivelare l’inesorabile e spesso fatale mistero di ogni cosa, di essere in grado di alimentare il suo dubbio costante, come quello, ad esempio, di non essere già morto, pur coltivando la sensazione di ricordare di essere già morto una volta. Pur essendo, all’epoca dei fatti, già troppo vecchio per poterlo poi ricordare.

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