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Assistenti civici: Giovani Marmotte o ronde?

di Vitalba Azzollini

Il variegato atteggiarsi dei decisori pubblici in epoca di pandemia – raccontato nelle scorse settimane tra emergenza sanitaria ed emergenza del diritto, tra stato di pandemia e stato di polizia – offre ora una manifestazione ulteriore. Il riferimento è ai 60mila volontari, cosiddetti “assistenti civici”, dei quali qualche giorno fa hanno parlato il ministro degli Affari regionali e il presidente dell’Anci.

Tali figure saranno selezionate mediante un bando tra disoccupati, percettori di reddito di cittadinanza o di ammortizzatori sociali e messe a disposizione dei Comuni per servizi di pubblica utilità. Tali servizi, inizialmente individuati nel controllare il rispetto da parte dei cittadini del “distanziamento sociale” e di altre misure, a seguito delle polemiche sorte – cui si è aggiunta una interrogazione con carattere d’urgenza – sono stati poi descritti in modo più sfumato e al contempo, come si vedrà, meno chiaro.

Chiaro è, invece, che in Italia molti temi finiscono in “caciara” anche per il malvezzo dei governanti pro tempore di fare annunci per vedere gli effetti che sortiscono, anziché definire sin da subito progetti puntuali. Così alla fine non si capisce quali siano limiti e obiettivi del tema di partenza.

Dunque, può essere utile capire di cosa parliamo quando parliamo di “assistenti civici”: da un lato, provando a inquadrare la figura sotto un profilo giuridico-formale; dall’altro lato, considerandone l’operatività sostanziale. Quanto al primo aspetto, un riferimento normativo può trovarsi in una legge in materia di sicurezza pubblica (l. n. 94/2009, art. 3, cc. 40 ss):

I sindaci, previa intesa con il prefetto, possono avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana. 

Tali associazioni devono essere iscritte in un particolare elenco redatto dal Prefetto, previa verifica da parte di quest’ultimo (e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica) di particolari requisiti, definiti in modo specifico e restrittivo da un decreto del Ministro dell’Interno dell’8 agosto 2009, sia per le associazioni stesse che per i loro componenti.

Tra le altre cose, le prime devono svolgere la propria attività gratuitamente, non essere riconducibili a partiti, movimenti politici, organizzazioni sindacali, né ricevere finanziamenti dalle categorie suddette; i secondi devono godere di buona salute psicofisica, non aver riportato condanne penali, disporre di adeguata copertura assicurativa.

Il citato decreto ministeriale definisce anche l’ambito di azione dei volontari, stabilendo – tra l’altro – che essi si limitino alla «mera osservazione» del territorio comunale, si spostino in gruppi di massimo tre persone, non si avvalgano di armi, animali o di mezzi motorizzati, indossino una particolare casacca che li renda distinguibili da esponenti delle forze dell’ordine, di associazioni politiche ecc.

Gli “assistenti civici” di cui si parla oggi per l’emergenza Covid-19 parrebbero rientrare, almeno per talune attività e caratteristiche, inclusa la necessità di copertura assicurativanella descrizione di cui alla legge e al decreto citati. Eppure chi li ha proposti non ha richiamato la suddetta normativa: sarà forse perché quelle da essa disciplinate sono le cosiddette “ronde” e non si voleva evocarne il concetto? E allora quali sono le differenze?

A questo punto, serve verificare i profili sostanziali dell’attività degli “assistenti civici”, per provare a capire cosa faranno in concreto. Se ci si dovesse riferire a quanto dichiarato da alcuni politici, di concreto si capirebbe ben poco: si tratterà di volontari che distribuiscono «buona educazione» e «sorrisi» alla «popolazione osservata», di «“community manager” specializzati in gestione “umana” delle relazioni», di «facilitatori» che lavorano sul contesto sociale, di «consulenti» che «agevolano» la responsabilità dei cittadini.

Maggiore concretezza si rinviene, invece, in chi dice: «se riapro i parchi e non ho nessuno che conta quante persone entrano, io i parchi non posso riaprirli» oppure «se si riaprono i mercati rionali, solo a patto di contingentare gli ingressi, poi serve qualcuno che possa contare chi entra». Le affermazioni riportate intendono, più o meno genericamente, rassicurare circa il fatto che gli “assistenti civici” «non saranno “incaricati di pubblico servizio” e la loro attività non avrà nulla a che vedere con le attività a cui sono tradizionalmente preposte le forze di polizia»: di fatto, tali affermazioni non dissipano il dubbio che il compito dei volontari in esame non si limiti comunque al prestare aiuto ai bisognosi.

Perché se gli “assistenti” dovranno almeno controllare che gli ingressi in spazi pubblici si svolgano secondo le regole fissate, la loro funzione sarà anche quella di verificare l’osservanza da parte dei cittadini di limiti posti a libertà personali. Inoltre, se è vero che essi agirebbero solo come osservatori volontari, tuttavia, quando riscontrassero violazioni delle misure previste, non potrebbero far finta di niente: può supporsi che segnalerebbero situazioni critiche alle forze dell’ordine, operando proprio come gli “assistenti civici” di cui alla citata legge in tema di “ronde”. E allora perché non richiamarla espressamente, se pure per profili limitati, fornendo al contempo una base giuridica certa al bando per il reclutamento? 

E, a proposito di basi, su quali basi – in termini di fabbisogni – si è deciso che servissero 60 mila nuove persone delle quali, pur essendo volontari, in termini organizzativi e non soltanto dovrà farsi carico una qualche amministrazione pubblica? Come sempre, la trasparenza dei decisori in Italia resta una pia istanza.

Foto di Elliot Alderson da Pixabay 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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