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Aspettando la riforma della Giustizia: "Pena e carcere" di Carlo Renoldi

Il ritrovato vigore del governo con il caso Ruby, spinge a continuare l’esame dei vari saggi di cui si compone "Giustizia. La parola ai magistrati", coordinato da Livio Pepino, ex Presidente di Magistratura Democratica, in modo da essere al meglio pronti quando la riforma della Giustizia vedrà la luce e sarà oggetto delle decisioni del Parlamento.

Quest’oggi il vostro cronista vi parlerà del capitolo "Pena e carcere" di Carlo Renoldi, appartenente per l’appunto alla Magistratura di Sorveglianza. Non aspettatevi un testo barboso e difficile da digerire: il dottor Renoldi ha una facilità di scrittura incredibile e non gli manca certo l’attitudine ad approfondire l’argomento, facendo dei paragoni illuminanti fra quello che è avvenuto nel nostro Paese e quello che, contemporaneamente, è avvenuto altrove.

Anche questo, un testo da proporre senza indugio nelle nostre scuole- sempre che qualcuno abbia veramente a cuore la cultura civica dei nostri ragazzi.

Di pene si occupa il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, che recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Questo, però, non è il punto di partenza del dottor Renoldi, bensì un punto di transito a partire dalle comunità arcaiche, dove regola religiosa e regola giuridica si sovrapponevano, così da far coincidere peccato e reato alle novità della cultura illuminista, quella che vide anche il nostro Cesare Beccaria scrivere Dei delitti e delle pene e ancora, passando attraverso le esperienze della workhouses inglesi e il modello disciplinare dello Stato liberale ottocentesco, che ritroviamo nell’Italia dello Statuto Albertino sino allo Stato sociale di diritto, grande scommessa della nostra Carta costituzionale ed alla sua attuazione.

Il punto fondamentale delle previsioni di quest’ultima è la rieducazione del condannato, che ha portato la legge n. 354 del 1975, detta legge penitenziaria, a basare proprio sul trattamento rieducativo del detenuto l’edificio carcerario.

Accanto alla detenzione, troviamo le misure alternative e, precisamente l’affidamento in prova al servizio sociale, l’affidamento in casi particolari, la detenzione domiciliare e la semilibertà. Il loro obiettivo è sempre quello del reinserimento sociale del condannato ed i numeri riportati dal dottor Renoldi danno loro ragione in maniera eclatante: dal 1998 al 2005, secondo uno studio del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, i soggetti sottoposti all’affidamento sociale sono tornati a commettere reati nella percentuale del 19 %, mentre la percentuale per i detenuti sottoposti a carcerazione la media è stata del 68,45 %. Purtroppo la farraginosa normativa esistente ha più volte compresso la possibilità di applicazione delle misure alternative nelle sue periodiche oscillazioni verso misure demagogiche, volte esclusivamente a rassicurare l’opinione pubblica, timorosa dell’attività criminale, senza costrutto alcuno e con il risultato di ottenere un sovraffollamento delle carceri tale da aver fatto venir meno, per la reclusione in esse, il divieto costituzionale di trattamenti contrari al senso di umanità. Oggi si assiste ad un vero e proprio stillicidio di morti violente in carcere, sovente per suicidio.

Quale pena per il prossimo futuro, si chiede nella conclusione l’autore. La riposta è: una pena come strumento rivolto al recupero sociale all’interno di un disegno complessivo che assicuri al diritto una funzione promozionale e inclusiva.

Il vostro cronista si permette di aggiungere che, a suo avviso, nell’attesa di una organica risistemazione anche strutturale del sistema penitenziale del nostro Paese, misure immediate dovrebbero essere adottate per evitare l’attuale affollamento delle carceri: solo in un secondo momento sarà possibile ragionare su una riforma organica del sistema.

Cosa pensa di tutto questo il legislatore della riforma della Giustizia prossima ventura siamo in tanti in attesa di saperlo.

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