Arabia Saudita: la condanna di Raif Badawi per "offesa alla religione"
Dall’Arabia Saudita, monarchia islamica dove è applicata la sharia e vige uno stretto controllo da parte della polizia morale, periodicamente arrivano notizie di pesanti condanne per blasfemia e offesa alla religione. A rimetterci spesso laici, non allineati all’islamismo imperante e non credenti. Questa volta a farne le spese è il giovane Raif Badawi, attivista per i diritti e animatore del sito Free Saudi Liberals: è stato condannato a sette anni di carcere e 600 frustate.
Nel portale si discute infatti del ruolo (ingombrante) della religione in Arabia, vengono diffuse idee liberali e anche l’islam è oggetto di critica: per questo Badawi è stato punito e il sito chiuso. In carcere ormai dal giugno 2012, per crimini informatici, offesa alla religione e disobbedienza al padre (nella società patriarcale e teocratica saudita, ciò è considerato un delitto), rischiava il crimine di apostasia, che avrebbe significato la condanna a morte, ma il giudice di Jiddah si è mostrato “clemente” infliggendogli il 29 luglio la condanna a sette anni, frustate comprese. Già nel 2008 era stato messo in carcere sempre per apostasia, ma era stato subito rilasciato.
Nei paesi dominati politicamente dall’islam coloro che osano anche solo esprimere dissenso in materia religiosa rischiano condanne pesanti. Come avvenuto in Tunisia, Egitto, Indonesia e Bangladesh, dove centinaia di migliaia di islamisti sono scesi in piazza invocando l’impiccagione dei blogger atei. Proprio l’Uaar, assieme alle altre associazioni umaniste nel mondo, ha protestato contro la loro carcerazione disposta dalle autorità per calmare gli animi degli integralisti. Uno di questi blogger, Asif Mohiuddin, qualche giorno fa è stato rimandato in carcere: il giudice ha rigettato la richiesta di rilascio su cauzione.
In più, i paesi islamici tentano di far passare in sede internazionale la criminalizzazione delle“offese” alla religione, entro cui far rientrare qualsiasi critica e limitando così la libertà di espressione, anche se non soprattutto dei non credenti. Le religioni non amano essere discusse. Non sono per nulla dissimili in questo dagli altri poteri e ciò mostra quanto siano materiali e “terrene”: la divinità, se esistesse nei termini in cui i teologi la descrivono, non avrebbe certo bisogno di una polizia e una giustizia religiose per difendersi. Agirebbe — per così dire — di propria iniziativa.
I leader religiosi vogliono, semplicemente, che non si metta in discussione il proprio potere. Più lo Stato è vicino a loro e più ci riescono, la conclusione è banale. Purtroppo, in molti paesi del mondo sta diventando “banale” anche condannare chi lo fa notare.
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