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Appalti pubblici: implacabili (e dannosi) con i piccoli, a tappetino con le autostrade

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ha stabilito che la proroga senza gara di concessioni stradali è illegittima, con sentenza della Sezione V, 18 settembre 2019, nella causa C-526/17. Il Portale da Ella gestito ed alimentato ha molte volte trattato dell’anomalia tutta italiana delle proroghe e dei rinnovi ai concessionari autostradali senza uno straccio di procedura concorsuale.

Evidentemente, per giungere a concludere l’ovvio, però, occorre aspettare che sia un giudice ad esprimerlo. E l’ovvio sta nel rilevare che una proroga di ben 18 anni e 2 mesi di una concessione “viola l’obbligo di parità di trattamento di cui all’articolo 2 della direttiva 2004/18 e l’obbligo di pubblicare un bando di gara, previsto dall’articolo 58 di tale direttiva”.

Proviamo a indovinare, Titolare, di cosa tratta la Direttiva evocata dalla Corte Ue? Googlando, vediamo che si tratta della direttiva del 31 marzo 2004 relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi: cioè la “madre” del codice dei contratti, a sua volta figlia del Trattato Ue e del mare di direttive pro concorrenza ai fini di liberalizzazione del mercato che l’Unione adotta da anni, da sempre, e che l’Italia da anni, da sempre, attua con “adattamenti” operativi oggettivamente non proprio in totale allineamento con le indicazioni di Bruxelles.

La circostanza che una sentenza riferita ad una specifica concessione autostradale, un tratto della autostrada A 12 Civitavecchia-Livorno, non pare possa destare particolare stupore. Purtroppo, non è rivelatore di un singolo incidente di percorso nella gestione delle concessioni autostradali, ma semplicemente un caso che è finito all’attenzione della Corte Ue e puntualmente oggetto di reprimenda all’Italia. Per un caso come questo, moltissime altre proroghe o rinnovi assegnati ai precedenti gestori, così da allungare per generazioni i contratti ottenuti, non sono stati ancora oggetto di esami giudiziali e, quindi, restano in qualche modo efficaci, nel silenzio di pronunce giudiziali.

La cosa rimarchevole, tuttavia, caro Titolare, non sta tanto o solo nell’evidenza giurisdizionale dell’illegittimità della pratica di rinnovi o proroghe decennali, quanto, piuttosto, nell’ipocrisia con la quale il legislatore regola la materia.

In apparenza, il nostro codice dei contratti si ispira in modo tetragono ai vari principi enunciati esattamente dalla direttiva che attua, espressamente elencati dall’articolo 30 del codice: economicità, efficacia, tempestività, correttezza, libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, pubblicità.

Però, come spiegato da Vitalba Azzollini, proprio uno tra i settori maggiormente strategici e soprattutto remunerativi per i concessionari, viene in rilevante parte sottratto all’applicazione dei principi, pur solennemente enunciati dal codice. Ed è bene tornare a sottolinearlo: il legislatore attua in modo blando e derogatorio gli obblighi di gara, proprio in un ambito nel quale ogni singola concessione vale milioni, se non talvolta, miliardi di euro.

Ebbene, Titolare, paradossalmente (?) la normativa italiana mentre risulta blanda nell’applicare le regole codicistiche (che poi sono quelle del Trattato Ue e anche dell’articolo 97 della Costituzione) per mega appalti (ricordiamo gli affidamenti diretti consentiti in vario modo da leggi-obiettivo o leggi emergenziali di varia natura) o mega concessioni, è, invece, implacabile quando si tratta di gestire appalti di importi ben inferiori, al di sotto delle soglie di rilevanza comunitaria, per i quali invece i principi della Ue potrebbero ben essere applicati in modo più discrezionale.

Tuttavia, per gli appalti sotto soglia, il codice nazionale ha pensato di “arricchire” i principi europei di un altro: quello di “rotazione”, del quale in questi pixel si è trattato di recente.

Sull’inserto Il Quotidiano degli Enti Locali del 23 settembre 2019, il Rettore dell’Università di Trento, Paolo Collini, nell’articolo “La discrezionalità può rendere la PA più efficiente“, esattamente sul merito, afferma: “L’obbligo di rotazione dei fornitori impedisce la fidelizzazione e la creazione di rapporti di fiducia e collaborazione. A monte vi è un paradigma difficile da intaccare. Si fonda sull’idea che dietro ad alcune scelte – un centesimo pagato in più per un acquisto, l’affidamento ripetuto allo stesso fornitore, un benefit non normato a un lavoratore, un servizio non previsto a un utente – si nasconda spreco di denaro pubblico, corruzione, violazione della concorrenza”.

 

Il paradosso nel quale si vive, dunque, Titolare, è il seguente: appalti o concessioni di importi elevatissimi e di impatto formidabile sui cittadini vengono piuttosto di frequente assegnati, rinnovati o prorogati senza gara. Appalti di ben più modesta entità, ma necessari per il funzionamento quotidiano della macchina, invece, si richiede siano gestiti in palese contraddizione col principio di concorrenza, impedendo al precedente gestore anche solo di partecipare.

Il Tar Trieste, con la sentenza 16 settembre 2019, n. 376, allineandosi alla lettura rigidissima del principio di rotazione (per altro inesistente nelle direttive Ue) ha considerato illegittima la partecipazione del gestore uscente di un servizio, nonostante l’appalto sotto soglia fosse stato svolto nell’ambito del Mercato Elettronico della Consip e con procedura aperta alla partecipazione di tutti gli operatori iscritti in quel mercato.

La lettura formale ha vinto ma la ditta vincitrice, quella uscente, aveva presentato un ribasso sulla base di gara del 65%, contro il ribasso della seconda fermatosi al 42,80%.

Come dice, Titolare? Il formalismo nell’applicare il principio di rotazione negli “appaltini” è, in fondo, espressione del medesimo autolesionismo che ispira l’annullamento totale del mercato in settori strategici come le comunicazioni autostradali? Diremmo proprio di sì.

Foto:Pixabay

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