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Ancora sul tricolore e la guerra

La violenza della mia sintetica ricostruzione del carattere criminale della Grande Guerra in Il tricolore sui forconi a qualcuno è forse apparsa eccessiva. Ci sono state ad esempio alcune dissociazioni indignate di lettori sul sito di Agoravox, che aveva ripreso l’articolo.

All’origine dello stupore per la mia indignazione, credo ci sia il lunghissimo silenzio della sinistra perfino sulla denuncia delle guerre coloniali e dei crimini di guerra compiuti in nome dell’Italia. Anche il PCI del secondo dopoguerra (la cui cultura ha influenzato pesantemente anche gli eredi che si consideravano più radicali) aveva distinto spesso tra la guerra etiopica, respinta perché fascista, e quelle in Eritrea, Somalia e Libia, più o meno sdoganate perché precedenti il fascismo, nonostante fossero state ugualmente ingiuste e distruttive. La riprova è che durante la discussione del trattato di pace il PCI aveva chiesto che le colonie prefasciste fossero assegnate temporaneamente all’Italia, ottenendolo almeno per la Somalia. Anzi, nel caso della Tripolitania, la proposta era stata quella di un mandato italiano sulla Tripolitania, condiviso con l’URSS che aveva interesse alle basi navali libiche! La Cirenaica, invece, doveva rimanere più o meno indipendente sotto l’autorità politico-religiosa del Senusso Idris, protetto dalla Gran Bretagna.

Ma la Grande Guerra non si metteva mai in discussione. Al massimo si ricordavano alcuni “eccessi” nella repressione del dissenso, ma la vulgata della “quarta guerra risorgimentale” era stata accettata da tempo.

Eppure è del tutto infondata. Lo scopo dell’entrata dell’Italia in guerra non era la “riconquista di Trento e Trieste”, come gridava nelle piazze la rumorosa minoranza interventista (più o meno apertamente foraggiata da emissari francesi e russi). Il vero obiettivo erano le conquiste territoriali concordate il 26 aprile 1915 a Londra dal marchese Guglielmo Imperiali di Francavilla, ambasciatore italiano, con il ministro degli Esteri britannico sir Edward Grey, il rappresentante francese Jules Cambon e il conte Alexander Benckendorff per l’impero russo. Se non erano nobili, non li volevano come ambasciatori…

Il Patto di Londra

All’Italia veniva promesso l’intero Trentino fino al Brennero (cioè con incorporato tutto il Sud Tirolo, l’attuale provincia di Bolzano, in cui la presenza italiana era insignificante), Trieste e dintorni, Gorizia e Gradisca, l’Istria fino al Quarnero (comprese varie isole adiacenti), l’intera Dalmazia, Valona e Saseno in Albania con sufficiente territorio strategico, il protettorato su un eventuale piccolo Stato autonomo dell’Albania, di cui l’Italia “avrà il diritto di dirigere le relazioni estere”, riconoscimento dell’annessione del Dodecanneso (che era stato occupato nel 1912 col pretesto di garantire l’effettivo sgombero delle truppe turche dalla Libia). Inoltre l’Italia otteneva la promessa di una fascia costiera della Turchia adiacente ad Adalia, in caso di smembramento dell’ex impero Ottomano, e di adeguate compensazioni territoriali in Africa se Francia e Inghilterra avessero esteso i loro possessi a danno della Germania: un’ammissione piena che uno degli scopi principali della guerra era una nuova spartizione delle colonie.

Altre clausole riguardavano la limitazione della libertà della Santa Sede: l’Italia esigeva che anche dagli alleati si negasse al papa il diritto di fare proposte di pace e di mediazione. L’accordo prevedeva ovviamente crediti e forniture militari all’Italia, ecc. L’ultima clausola riguardava l’impegno comune alla segretezza. Ed effettivamente di questa, come di altre infamie dei potenti, non avremmo saputo niente, se il Commissario del Popolo agli Affari Esteri Lev Trotskij non avesse fatto saltare con la dinamite la cassaforte del ministero zarista, e pubblicato immediatamente sulle Izvestija tutti i trattati segreti che vi erano custoditi. Oltre a questo, di particolare rilevanza l’accordo Sykes-Picot per una spartizione del Vicino Oriente tra Francia e Gran Bretagna.

Come è noto al termine della guerra nascerà in Italia il mito della “Vittoria mutilata”, perché una parte delle promesse non sarebbero state mantenute: effettivamente non fu possibile annettere la Dalmazia, ma per il robusto nazionalismo slavo; lo stesso avvenne nell’immediato dopoguerra con l’Albania, perché a più riprese le truppe italiane furono cacciate da Valona e Durazzo; mentre per la fascia di Adalia, la ragione fu che l’invasione congiunta delle forze militari della Grecia e dell’Intesa fu duramente battuta dalla resistenza turca guidata da Kemal Ataturk (con catastrofe conseguente della popolazione greca, che dovette lasciare le zone in cui abitava da oltre due millenni). Invece alle spalle delle ignare popolazioni locali l’Italia allargò la sua Somalia con l’Oltre Giuba staccato dal Kenia britannico, e ottenne dalla Francia una striscia di deserto al confine tra Ciad e Libia.

Le rivendicazioni (segrete) del governo italiano rivelavano che non si trattava solo di “qualcosa in più” del ritorno alla patria del sacro suolo di Trento e Trieste. Era proprio un’altra cosa.

Infatti l’8 aprile (cioè una ventina di giorni prima della stipula del Patto di Londra) il ministro degli Esteri italiano Sidney Sonnino aveva presentato a Vienna una serie di richieste di territori italiani o etnicamente misti che facevano parte dell’impero austroungarico, rifiutate inizialmente perché comprendevano anche zone inequivocabilmente tedesche, ma non in blocco: tanto è vero che appena un mese dopo, il 10 maggio, una controproposta era stata poi presentata dall’ambasciatore austriaco a Roma, Karl von Macchio. Prevedeva la cessione di tutto il Tirolo di nazionalità italiana, quindi Trento; tutta la riva occidentale dell’Isonzo; Valona (con disinpegno totale dell’Austria in Albania). Trieste avrebbe avuto una piena autonomia municipale, come città libera, con porto franco e università italiana. Era un ritiro parziale dell’Austria, con una soluzione che sarebbe stata ben più utile della pura annessione per l’economia di Trieste, che non poteva vivere solo come porto italiano, mentre aveva tutto l’interesse ad essere il porto franco del suo naturale hinterland di territori senza sbocco diretto sul Mediterraneo. Ma fu considerata inaccettabile e presentata come una manovra per far cadere il ministero Salandra dichiarandolo incontentabile.

In realtà, la marcia verso la guerra non poteva più essere fermata. Eppure era insensata. A distanza di quasi un anno dall’inizio del conflitto, che era stato preparato in ogni paese da un clima di fanatismo nazionalista a cui si piegarono facilmente (e quasi sempre volentieri) i dirigenti socialdemocratici, era assurdo farsi illusioni sulla sua natura. Ma un settore importante della borghesia italiana, strettamente legata alla casta militare (potente all’interno quanto inetta sul campo) non aveva minimamente studiato le caratteristiche che aveva assunto il conflitto, e si era illusa di poter determinare con l’apertura di un fronte italiano un brusco spostamento degli equilibri europei e quindi un rapido e poco costoso successo.

L’opinione pubblica fu ubriacata di chiacchiere retoriche e di illusioni, senza riuscire a capire quali sarebbero stati i fattori determinanti della vittoria: il potenziale industriale e la capacità organizzativa, oltre a quelli specificamente militari, assolutamente sottovalutati. Basti pensare che nell’agosto 1914 l’esercito italiano contava solo 45.099 ufficiali (di cui solo 15.858 in servizio attivo permanente. Nell’immediata vigilia dell’entrata in guerra e poi nel corso del conflitto fu necessario addestrarne in fretta (a volte con corsi di poche settimane) ben 160.191. Ovviamente con una preparazione sommaria.

La posta in gioco

La guerra era iniziata col pretesto dell’attentato di Sarajevo, che a suo tempo suscitò molti dubbi sulle circostanze sospette che avevano reso così facile il lavoro degli attentatori, e che comunque non poteva essere la vera causa. La guerra era la conseguenza inevitabile di rivalità imperialistiche che erano apparse evidenti da tempo, e che si erano manifestate a più riprese fino a diventare con le guerre balcaniche un preannuncio inequivocabile della grande tragedia.

La posta in gioco era la ridefinizione delle sfere d’influenza e della spartizione del mondo decise per i Balcani nel Congresso di Berlino del 1878, per l’Africa nella Conferenza del 1884-1885. Naturalmente, per la prima volta, la guerra era anche preparata da una campagna propagandistica senza precedenti, che ad esempio nei paesi dell’Intesa descriveva minuziosamente inesistenti crudeltà tedesche nel Belgio occupato. Sandro Curzi ha raccontato come suo zio, fervente antimilitarista e neutralista, partì volontario dopo aver sentito che a migliaia di bambini del Belgio erano state amputate le mani. Finita la guerra si recò in Belgio per vederli e offrire il suo aiuto, ma non ne trovò traccia. Forse i confezionatori di menzogne di guerra avevano utilizzato le descrizioni di Mark Twain delle feroci vessazioni, comprese amputazioni punitive di arti, usate da re Leopoldo per obbligare i congolesi a fornire lavoro schiavistico…

Fatto sta che come lo zio di Curzi, tanti socialisti finirono per interpretare analogamente il “Né aderire, né sabotare” e partirono volontari. Sui municipi ad amministrazione socialista, anche riformista moderata, come Bologna, Milano o Molinella, venne issato per la prima volta il tricolore, al posto della bandiera rossa e a fianco del gonfalone del comune. Eppure la guerra era sul fronte italiano inequivocabilmente non difensiva, almeno fino all’ottobre 1917, quando lo sfondamento austro tedesco a Caporetto penetrò profondamente in suolo italiano.

I socialisti italiani (con poche eccezioni) fornirono un chiaro esempio di rapido adattamento alla canea bellicista, e spesso non osarono neppure denunciare la ferocia della repressione interna, che scaricava su poveri fanti in gran parte analfabeti e rassegnati, le colpe delle sconfitte, e li puniva a volte con la barbara decimazione. Per non parlare della ferocia degli speculatori, in combutta con molti ufficiali addetti alle forniture, che rifornivano di scarpe con la suola imbottita di cartone e di abiti estivi anche i soldati spediti a combattere a tremila metri, dove la neve arrivava già a settembre. Molte testimonianze, anche di interventisti democratici delusi, hanno descritto la cecità dei comandi, che non aveva provveduto a fare ordinazioni di sacchi a pelo e di indumenti pesanti, nella convinzione che la guerra sarebbe finita ben prima dell’inverno 1915. Un altro crimine. Dei 600.000 soldati italiani morti, moltissimi hanno perso la vita per le colpe di chi aveva voluto questa guerra senza preoccuparsi di prepararla, ma solo di arricchirsi. E lo stesso è accaduto in tutti i paesi, dove i caduti sono stati ancora di più: in totale otto milioni di morti…

Sul ruolo e le complicità dei socialisti ci ritornerò, perché vale la pena di ricostruire con più tempo e spazio le vicende di una collaborazione subalterna di cui i comandi militari e il governo erano ben consapevoli. Ho trovato testimonianze che ricordano il comportamento della socialdemocrazia austriaca, che avevo ricostruito nel mio libro Trockij. la pace necessaria. 1918. la socialdemocrazia e la tragedia russaArgo, Lecce, 2007, a proposito degli scioperi in Austria del gennaio 1918. Forse vale la pena di ritornarci esaminando la vicenda di Caporetto, e le interpretazioni mistificanti, che hanno ingigantito il ruolo dei “disfattisti” (cioè dei pochi internazionalisti coerenti) e presentato come uno “sciopero militare” uno sbandamento provocato dal panico e dallo sfaldamento dei comandi locali. Ho avuto modo di conoscere diversi vecchi contadini toscani che erano stati condannati come “disertori”, e che più di quarant’anni dopo spiegavano in modo semplicissimo il loro comportamento: “Ci avevano detto che dovevamo andare a liberare i nostri fratelli oppressi, ma quando siamo arrivati abbiamo scoperto che non volevano essere liberati, e che sotto l’Austria stavano molto meglio di noi, per questo ce ne siamo andati quando l’esercito si è sfasciato”.

 

E infine una precisazione “autobiografica

Il mio atteggiamento è facilitato da una circostanza familiare. Mio padre combatté come giovane ufficiale nella prima guerra mondiale (sul Grappa) e nella seconda come colonnello, in Sicilia, dove fu decorato con medaglia d’argento. Aveva poi concluso la sua carriera come generale di divisione. Abbiamo avuto spesso conflitti culturali, anche perché era stato sconvolto – tornando dalla prigionia in Egitto – dalla scoperta che un figlio di sedici anni per seguire il suo esempio si era arruolato volontario nella RSI ed era morto tragicamente. Ma mentre assistevamo mia madre morente, ci trovammo finalmente a parlare, e mi descrisse onestamente la paurosa impreparazione che c’era stata in entrambe le guerre. Ho cercato di capire meglio, e il mio odio verso gli esaltatori del nazionalismo e del cosiddetto “onore militare” si è rafforzato e radicalizzato. Ecco perché insisto tanto sul NO alla guerra, sempre e senza condizioni, e sono inorridito per i tanti mascalzoni che si coprono del tricolore per fare i loro affari…

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