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"Acciaio" di Silvia Avallone: istruzioni per l’uso

Il romanzo di una promettente giovane scrittrice, che sta rapidamente scalando la classifica dei libri più venduti, ha suscitato aspre polemiche a Piombino, la città che fa da sfondo alla narrazione. Verità e fiction a confronto: e un doveroso invito alla prudenza nel giudizio, critico e non solo.

Questa è una stroncatura. Me ne dispiaccio assai, primo perché conosco di persona l’autrice, Silvia Avallone, e la trovo una ragazza simpatica, gentile e intelligente; secondo, perché, per una piombinese come la sottoscritta, la stroncatura di “Acciaio”, com’è noto ambientato a Piombino, si presta ad una serie di prevedibili equivoci: per esempio all’accusa di essere mossa da un pregiudiziale attaccamento alla mia realtà d’origine, in verità un po’ bistrattata da Avallone. Nei suoi interventi pubblici, Silvia si è meravigliata delle polemiche che il suo romanzo d’esordio ha acceso in questa città. Io mi sono meravigliata della sua meraviglia. Ovvio che parecchi piombinesi non si siano riconosciuti nel ritratto che Silvia offre di Piombino. Altrettanto ovvio che altri, come lei dice, le abbiano scritto dichiarandole la loro solidarietà, visto che avrebbe raccontato “le cose come stanno”. Piombino è una realtà complessa, di non facile rappresentazione e comprensione. Ci sono sacche di degrado? Ci sono. La vita in fabbrica è dura, al limite della brutalità? Talvolta, spesso, è così. Esistono famiglie disgregate, adolescenti tossici, madri maltrattate, padri malavitosi? Ma sì. Piombino, e nello specifico la Piombino operaia e proletaria, è tutta qui? Ma no, certo che no. E quindi dipende dal punto di vista e dalle esperienze dei singoli. Come saggiamente ha commentato mia suocera, donna del popolo e dal carattere davvero d’acciaio: “Bisogna vedere chi si frequenta”.

Anna e Francesca, le adolescenti protagoniste, nascono nel 1987. Il padre di una delle due, Arturo, prima di abbandonarsi ad un climax malavitoso assai d’effetto, letterariamente parlando, è caporeparto in Lucchini. Da qualche parte nel libro viene anche evocata una prof di latino, simpaticamente definita come una “strega”. Beh, mia figlia è nata nel 1988, mio marito era caporeparto in Lucchini (e i miei suoceri vivono nella strada che, secondo alcuni – ma lei nega - ha fornito all’autrice l’ispirazione per la sua “via Stalingrado”, autentica coprotagonista del libro), e io sono prof. Potrei concludere che il libro parla di noi, e doverosamente indignarmi, visto che non mi riconosco né tanto né poco nel ritrattino che esce dalla narrazione. E invece lasciamo perdere il caso personale e seguiamo l’esempio dei critici magnanimi, quelli che ricordano: “E’ un romanzo, è fiction, Piombino è solo pretesto”. Del resto la stessa Silvia afferma: “Acciaio non è un romanzo su Piombino. Via Stalingrado è un luogo inventato. Ci tenevo a parlare della provincia italiana industriale, un pezzo non trascurabile del nostro Paese, anche se in tv viene totalmente taciuto”. Uhm. E allora vediamo come questa benedetta provincia italiana viene rappresentata. Realisticamente? In modo credibile? Davvero “Acciaio” è la sorprendente opera prima di un’autrice che riesce, nonostante la giovane età, a dar voce agli esclusi, agli invisibili, a tutti coloro che in un modo o nell’altro scompaiono inghiottiti dalle luci stroboscopiche dei media?

Direi di no. Di stereotipi non ne manca nemmeno uno. La bionda e la bruna. I ragazzi belli e dannati. I maschi arrapati. L’adolescenza inquieta. Il padre cattivo, e quello cialtrone. La mamma pestata e quella delusa. La bella ricca e borghese che si appaia con l’operaio rozzo ma sincero. L’amica racchia e invidiosa. I pensionati spenti e guardoni e le zitelle pateticamente in tiro. L’amicizia maschile e quella femminile, con una maliziosa spruzzata “lesbo”. Il giardino segreto. Le gravidanze precoci. Il quartiere operaio abbandonato al degrado. Aggiungiamo: un po’ di cocaina, qualche descrizione, assai imprecisa in verità, della vita in fabbrica, vita operaia, maschia e animalesca, come da manuale, il bar malfamato (anzi, la cartolina del bar malfamato) e il night di quart’ordine (ovvero la caricatura del night: sembra una scena tratta di peso dalla programmazione attuale della soap “Centovetrine”, per chi sa di cosa parlo). Insomma, personaggi tipo, ma proprio per questo assai poco convincenti. Senza spessore.

La struttura. Il libro scorre, non dico di no. Ma il fatto che la lettura sia semplice, come bere un bicchier d’acqua e che il romanzo possa essere esaurito nel tempo di un viaggio in treno non è di per sé garanzia di qualità eccelsa. Altrimenti dovremmo buttare al macero tre quarti della letteratura mondiale (che faccio? Brucio Proust?) e innalzare Moccia agli altari del gotha letterario. Ne faranno un film? Staremo a vedere se ne uscirà un capolavoro o una fiction paratelevisiva, magari dignitosa ma poco significativa.

La scrittura. Si dice: “E’ un’opera prima, frutto del lavoro di un’esordiente. Perdoniamo gli scivoloni”. E potrei anche essere d’accordo su una (relativa) indulgenza per certe ingenuità giovanili. Eppure qualcuno grida al capolavoro: ma quando si grida al capolavoro, allora un minimo di prudenza è d’obbligo. In fondo Goethe aveva venticinque anni quando scriveva il Werther, prototipo di ogni successivo romanzo di formazione. Lo studiamo ancora, ma non credo che la traccia di “Acciaio” nella storia della letteratura italiana sarà altrettanto duratura. E lascerei perdere anche il paragone con Salinger. Holden è decisamente altro. L’impressione è che l’autrice si sia lasciata prendere la mano dal gusto per la bella prosa, condita qua e là da qualche apparente trasgressione, e che abbia perso di vista il succo dell’intera faccenda. Con effetti, qua e là, al limite del risibile (tipo la descrizione dettagliata della distruttiva depressione in cui cade l’omaccione padre di Francesca per un dito medio amputato, dito al quale, peraltro, vengono attribuiti significati reconditi assai bizzarri: sottolineo, il dito medio, forse simbolo della, ehm, smarrita virilità del personaggio). Mescolare D’Annunzio con l’acciaio può essere interessante, ma se già D’Annunzio (che era D’Annunzio) spesso scivola nel kitsch, figurarsi Avallone. Se poi gli ingredienti della minestra sono D’Annunzio e Verga, con una spruzzata di Pascoli qua e là, il povero lettore rischia lo sconcerto. Verga, come sappiamo, sognava un romanzo che si scrivesse da sé, il puro documento umano: eppure, nella consapevolezza che delineare un quadro sociale credibile non è affatto facile, si informava con attenzione e puntiglio su quello che narrava. Silvia va un po’ a braccio. Certo, dichiaratamente il suo romanzo non è reportage, ma allora, mi chiedo, che cos’è? A che serve un racconto che stabilisce un legame del tutto fittizio e generico con la sua “fonte di ispirazione”, chiamiamola così, ovvero una Piombino abbozzata, ridotta a mero pretesto per un raccontino sentimentale abbastanza scontato? Si aprirebbe a questo punto la possibilità di un ragionamento assai complesso sul rapporto fra letteratura e realtà, ma non è il caso qui di abbandonarsi ad improbabili discettazioni sui massimi principi. Diciamo solo che, ahimè, il risultato ottenuto in questo romanzo è assai approssimativo: la fabbrica, la città, la squallido quartiere operaio sono scenari di maniera, sfondi di cartapesta per la storiella esile di due ragazzine un po’ esaltate alle prese con problemi più grandi di loro. E, se vogliamo, sono problemi più grandi anche della penna di Silvia. La quale, poverina, deve avere irritato non poco, fra l’altro, tutti quei piombinesi che si sono comprati casa a prezzi per niente politici proprio nella sovietica Salivoli, nei pressi di quella spiaggia “degradata” che rappresenta lo sfondo delle torride estati dei protagonisti: se non erro, i prezzi vanno dai 180.000 euro in su. Sai che rabbia scoprire di aver fatto un mutuo trentennale per una dimora nell’equivalente toscano di Scampia che tu incautamente avevi ritenuto un posto decente, “quasi” residenziale.

E va bene, scusatemi: non confondiamo realtà e fiction. Anche se è un po’ difficile, quando ti imbatti ad ogni angolo di strada negli scorci, nei locali, nei negozi descritti dalla nostra autrice: dal bar Nazionale alla gioielleria Scognamiglio, dal gazebo dell’Ice Palace a Piazza Bovio, dal pattinodromo alla friggitoria, da Piazza Gramsci alla gelateria Top One (quella che in effetti tutti chiamano Topone). Credere che Silvia non abbia valutato l’inevitabilità dell’equivoco mi sembra quantomeno riduttivo: sebbene, in effetti, nella descrizione dell’estate tipica piombinese manchi un elemento fondamentale, ovvero quella Sagra del Pesce, con padellone di fritto al centro di Piazza Bovio e fuochi artificiali annessi, che da sempre rappresenta il clou del periodo per i nostri bravi concittadini. A parte le facili battute di spirito, se il romanzo voleva essere un affresco corale della realtà sociale di Piombino (e di certa provincia italiana che Piombino, nel bene e nel male, può rappresentare), va detto, molto semplicemente, che manca il bersaglio: perché, ripeto, semplifica, appiattisce e banalizza. 

Che dire, alla fine? Leggetelo. Sì, leggetelo (raccomando comunque ai non piombinesi di non prendere assolutamente per realistica l’immagine poco felice di Piombino che emerge da “Acciaio”, sono certa oltre le intenzioni della stessa autrice, che, sia detto per inciso, piombinese non è), anche per evitare certe facili polemicuzze. Intanto a qualcuno, a molti, è piaciuto: come piacciono in genere tutti quei romanzi, scritti non malissimo, che confermano i lettori nei loro consolanti luoghi comuni. Parafrasando De Gregori, si potrebbe dire: “La ragazza si farà, anche se (per ora) ha le spalle strette” … sempreché la probabile candidatura allo Strega e il gran battage che sta facendo Rizzoli non la brucino prima, come spesso capita agli esordienti promettenti. Io, devo ammetterlo, ho fatto un certo sforzo ad arrivare in fondo. Ma va detto: sono prof (vil razza pallosa) e ho gusti letterari un po’ particolari, quindi può essere che non sia così attendibile, così sintonizzata sul gusto popolare come conviene. Sinceramente, non fosse stato perché la storia è ambientata qui e tutti mi chiedevano, insistentemente, che cosa ne pensassi, non avrei mai pensato di acquistare un libro del genere. Né di scriverne così a lungo. L’operazione pubblicitaria, da questo punto di vista, ha funzionato benissimo.

Vorrei concludere solo con una piccola, piccolissima osservazione critica sull’immagine di copertina: era proprio indispensabile piazzare Mercoledì, quella della Famiglia Addams, vestita di stracci, sullo sfondo di un paio di ciminiere che sembrano costruite con il lego? Sì, lo so, sono foto più o meno di autore: ma l’impressione è quella.

Commenti all'articolo

  • Di Marauder (---.---.---.207) 9 maggio 2010 01:44

    Sono un piombinese che ha letto il libro sull’onda delle polemiche scaturite alla sua pubblicazione. Sfortunatamente non sono d’accordo sulll’avvertenza relativa al fatto che i non piombinesi debbano "non prendere assolutamente per realistica l’immagine poco felice di Piombino che emerge da “Acciaio” in quanto, all’opposto, è talmente realistica come solo può esserlo chi ha "visto" con occhi neutri. La Avallone non è nata a Piombino né ci vive, ma ci è stata, pertanto ha fatto in tempo a non essere contagiata dai fumi delle acciaierie che qualcosa sicuramente contengono e che agisce in modo psicotropo sul cervello dei suoi abitanti, in particolare nelle aree corticali adempienti le funzioni del buon senso. Dico questo perché ritengo Acciaio un monumento, un monolite, una colata di metallo fuso, come allegoria per la "fusione" celebrale dei suoi abitanti. Dura come l’Acciaio è l’ipocrisia che regna sovrana in città; una città un tempo chiamata la "piccola Russia" e dove, nei tempi e luoghi del romanzo, il solo sentir dire che Lucchini vendeva ai russi ha generato preoccupazione, e dove ora, nei tempi di questi interventi e recensioni, il solo sentir dire che i russi vendo ai cinesi far star peggio. Alla faccia della "Rivoluzione Culturale"... I piombinesi votano a sinistra perché oramai è una tradizione "radicata nel territorio", me pensano da leghisti, tanto per dare una connotazione in termini "politici" al discorso. Non m’interessano i giudizi di carattere letterario al libro, non m’interesso di letteratura a questo livello e pertanto li lascio al lettore; tanto meno m’interessano le questioni femminili. M’interesso di scienza e quindi reputo scientifica l’analisi che emerge dal romanzo nella parte concernente i suoi personaggi. Scientifica è la trasformazione del pensiero operaio da prodotto grezzo, storico, a prodotto finito, fresato e lucidato dall’antistoria, dalle società dei consumi e dal messaggio dei media. Li ho conosciuti personalmente quelli che nel romanzo sono personaggi di fantasia, perchè quei caratteri esistono e ci sono, a Piombino come altrove; è incredibile dover dire al resto delle persone che Piombino non è così, come se anche altrove non ci fossero i soliti caratteri!

  • Di (---.---.---.23) 16 giugno 2010 23:09

    Mi dissocio dalle reazioni spropositate dei piombinesi (ma anche queste un po’ gonfiate dall’eco che hanno trovato sulla stampa locale e nazionale), ma il libro della Avallone mi ha delusa! Non perché racconti di Piombino in un determinato modo, ma proprio per l’intreccio troppo prevedibile e per il linguaggio fin troppo ammiccante e furbo. E’ un libro non sincero, pieno di luoghi comuni che probabilmente sfrutta un contesto che si ispira ad alcuni fatti realmente accaduti. Una grande operazione di marketing della Rizzoli, niente di più.


  • Di Nemo (---.---.---.117) 4 ottobre 2017 23:13

    La sinistra di Piombino è sempre stata ultra destra sociale, sul comunismo tutte cazzate, votavano a sinistra solo per tradizione, ha perfettamente ragione il primo commento oramai datato.

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