A cosa servono le manifestazioni di piazza?
Quante manifestazioni di protesta e di lotta contro il governo Berlusconi e non solo ci sono state negli ultimi mesi?
Andando indietro con la memoria e grazie a Google (e sicuramente ne dimenticherò qualcuna):
il 29 gennaio, Milano, "Un'altra storia italiana è possibile" promossa dall'Unità di Concita de Gregorio; il 5 febbraio, Palasharp Milano, "Dimettiti. Per un'Italia libera e giusta" promossa da Libertà e Giustizia; il 12 febbraio "Adesso Basta! Berlusconi dimettiti!" organizzate in tutta Italia dal Popolo Viola; 6 febbraio, Popolo Viola di Milano ad Arcore; 13 febbraio, "Se non ora quando?", per la dignità delle donne; 1 marzo, sciopero dei migranti e No Razzismo Day; 12 marzo, Manifestazione in difesa della Costituzione promossa da Articolo21; 19 marzo, Manifestazione di Libera a Potenza in ricordo delle vittime della mafia; 26 marzo, Manifestazione per l'acqua pubblica e contro il nucleare organizzata dal Forum dell'acqua.
A questi si aggiungono innumerevoli sit-tin a livello locale e contestazioni estemporanee a Berlusconi e ai suoi accoliti ogni qualvolta è possibile.
E per le prossime settimane ci attendono (almeno) il 2 aprile la manifestazione per la pace, promossa da Gino Strada ed Emercency, il 9 aprile la mobilitazione dei precari, oltre alle ricorrenze ufficiali della Festa della Liberazione del 25 aprile e della Festa dei Lavoratori il 1° maggio, fino ad arrivare allo sciopero generale del 6 maggio.
In pratica almeno una a settimana: tutte iniziative lodevoli e sacrosante, ce ne fosse una al giorno, ma si tratta di una strategia giusta?
Davvero c'è chi pensa che Berlusconi cadrà per una o più manifestazioni di piazza a meno che queste non assumano quel carattere di rivolta di popolo che di certo non appare all'orizzonte?
Mentre nel frattempo l'opposizione partitica, sociale, culturale non è stata in grado (e qui sono determinanti le colpe della maggiore forza antigovernativa, il PD) di definire una proposta alternativa unitaria con la chiara indicazione di programmi, alleanze elettorali, leadership?
Qualcuna azzarda il confronto con ciò che è successo in altri Paesi. Ma chi prende ad esempio i nostri dirimpettai mediterranei o del vicino e medio Oriente - Tunisia, Algeria, Albania, Egitto, Bahrein, Yemen e Siria (la Libia è evidentemente un discorso a parte) – sembra ignorare che i caratteri sociali, ideologici e religiosi, demografici (la forte componente giovanile di quelle popolazioni), la rabbia e la disperazione di quei popoli è ben diversa da quella italiana.
E certo non credo si possano invidiare quei Paesi per le condizioni politiche ed economiche in cui vivono e per i morti, caduti sotto i colpi della repressione, agli angoli delle strade.
Per venire a Paesi il cui assetto istituzionale e sociale è più simile al nostro - Gran Bretagna, Irlanda, Francia, Grecia – le proteste popolari contro le politiche e i provvedimenti di austerità economica e antisociali, pur assumendo talvolta anche il carattere della ribellione aperta, non sono riuscite a cambiare le decisioni di quei governi e ad impedire l'adozione delle leggi contestate.
Eppure non sono mancati i casi in cui nella recente storia italiana la 'piazza' ha vinto o ha determinato effetti politici duraturi: la manifestazione del Circo Massimo della CGIL del 23 marzo 2002 che fermò, forte dei suoi tre milioni di partecipanti, il progetto di modifica dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la manifestazione della Fiom del 16 ottobre e lo sciopero del 28 gennaio che hanno avuto l'effetto di mettere in campo un nuovo soggetto sociale, in grado di raccogliere attenzione e consenso sui temi del lavoro e dei diritti, Terzigno dove l'irriducibilità e l'opposizione ad ogni costo dei cittadini impedì l'apertura di una nuova discarica, penso alla manifestazione degli studenti e precari dello scorso 14 dicembre che trasformatasi anche in rivolta violenta, pur non impedendo l'approvazione della riforma Gelmini, ha costretto tutti a prenderne in considerazione le richieste e le proteste.
In altri casi, compreso ahimè il NoBDay del 5 dicembre 2009, le manifestazioni, pur imponenti, non hanno spostato equilibri, non sono riuscite ad allontanarsi dal circolo di chi era già d'accordo, non hanno 'obbligato' a prendere in considerazione le istanze di chi le ha promosse e vi ha partecipato.
Ma allora se una manifestazione è efficace in base ai numeri, alla radicalità con cui viene realizzata, ai contenuti che propone e riesce a diffondere non è un grave errore non concentrare le forze su di un unico evento?
Continuando così come si sta facendo non si ottiene solo l'effetto pur importante di galvanizzare chi è già dalla nostra parte attraverso un segnale di speranza e di lotta: 'Noi ci siamo e siamo tanti'? O, al massimo, a condizionare quel ceto politico che dovrebbe rappresentarci?
Non si avverte un senso di ritualità e di impotenza nella reiterazione di tali eventi? Se non si uniscono strategia politica e partecipazione di massa da che parte si va?
Allo stato attuale dei fatti Berlusconi, finito politicamente, ha impedito il fuggi fuggi dal proprio partito, gode ancora del consenso parlamentare e dell'appoggio di alcuni poteri forti perché nel Paese non esiste una coalizione alternativa che goda di un chiaro consenso popolare né è ancora pronta (ragionando con la logica della partitocrazia e delle lobbies più o meno occulte) una successione interna al sistema (e questa era la condizione indispensabile per il successo della fronda finiana e per quel governo di emergenza nazionale proposto da Casini e Bersani). Se si guarda ai devoti esponenti di Comunione e Liberazione che sono i più solerti nella difesa del proprio capo, si deve ritenere che il Vaticano non ha affatto abbandonato il proprio riferimento politico di quest'ultimo ventennio.
Berlusconi sembra oggi poter cadere solo quando i poteri forti che lo hanno fin qui sostenuto avranno trovato una soluzione che garantisca la continuità del proprio dominio economico e sociale (e forse da questo punto di vista la questione libica non resterà senza conseguenze).
Ecco allora che le forme di protesta dovrebbero porsi il problema di come riuscire realmente ad incidere sui rapporti di forza sociali ed elettorali, come riuscire a 'piegare' il potere e come riuscire a dialogare "con gli altri" e convincere chi a questi poteri tuttora conferisce il proprio consenso.
Se ormai tutti i cittadini europei devono subire le decisioni di organi sovranazionali non responsabili democraticamente (BCE, Commissione Europea oltre a FMI, Banca Mondiale, WTO) non è assolutamente indispensabile dare un respiro europeo alle proteste?
Non sarebbe il caso di pensare, limitandoci all'Italia, anche a nuove e innovative forme di lotta, al boicottaggio economico ad esempio, alla creazione di una rete sociale e di imprenditorialità auto-organizzata diffusa sul territorio che crei le premesse per un diverso sistema produttivo ed una più evoluta coscienza civile, ad un volantinaggio sistematico, massiccio e diffuso nei luoghi di lavoro, davanti alle scuole e alle chiese, nelle stazioni ferroviarie, degli autobus e delle metropolitane per informare, in modo chiaro e sintetico, chi non è ancora consapevole, acquisendo notizie solo attraverso le televisioni, dell'iniquità delle decisioni che ci vengono imposte, del disastro berlusconiano e delle colpe imperdonabili della partitocrazia tutta?
Non è così che quelle centinaia di migliaia di persone che da tempo hanno deciso di non arrendersi e di lottare attivamente per cambiare il nostro Paese acquisterebbero una forza reale e democraticamente rivoluzionaria?
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