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A proposito di gas di scisto e "carbon capture". Intervista al Prof. Enzo Boschi

Gas di scisto (shale gas) e Carbon Capture and Sequestration (CCS): due tecnologie del sottosuolo a sostegno dello sviluppo delle fonti fossili per la generazione elettrica.

Lo shale gas è già una realtà consolidata negli USA, dove questa estrazione non convenzionale di gas (fracking o idro-fratturazione) ha rivoluzionato l'intero scenario energetico. La CCS invece, finalizzata a risolvere il problema delle emissioni di CO2 provenienti dalla generazione elettrica da fonti fossili tramite confinamento nel sottosuolo, ancora fatica a trovare applicazioni industriali.

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Enzo Boschi
Professore ordinario di Sismologia - Università di Bologna

Prof. Boschi*, secondo Lei quali sono le reali potenzialità a livello mondiale delle due tecnologie?

Innanzitutto inizierei col dire che quando si parla di gas di scisto o shale gas ci si riferisce al gas naturale intrappolato in particolari formazioni rocciose sedimentarie di prevalenza argillosa.

L’Unione Europea categorizza la ricerca e l’estrazione dello shale gas tra le attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi non convenzionali che si basano su metodi quali la perforazione orizzontale e la fratturazione idraulica (fracking) ad alto volume, da non confondere, come spesso accade ai non esperti, con la semplice re-iniezione delle acque petrolifere, con la modulazione stagionale del gas naturale in reservoir (stoccaggi) o addirittura con il mini-frack di ri-circolazione delle acque, tecnica impiegata nei test di permeabilità dei pozzi per l’acqua potabile superficiale.

Ciò detto, negli ultimi dieci anni, grazie ai miglioramenti avvenuti nei processi di estrazione ed alla diminuzione dei relativi costi è stato possibile accedere a grandi volumi di shale gas, per lo più negli Stati Uniti che ospitano le maggiori riserve del pianeta.

Va comunque detto che anche la combustione di shale gas produce emissioni di gas serra per quanto in misura inferiore rispetto alle tradizionali fonti fossili (circa la metà del carbone a parità di MWh elettrici prodotti).

CO2

Con l’obiettivo invece di produrre energia elettrica “a zero emissioni”, le tecnologie di CCS, ovvero di cattura e stoccaggio della CO2, stanno oggi trovando le prime applicazioni industriali per lo più nell’ambito delle centrali elettriche alimentate a carbone.

Un ambito di applicazione che andrebbe però esteso anche ad acciaierie, cementifici, raffinerie e qualsiasi altro impianto di grande taglia responsabile di emettere CO2 in atmosfera, ma la strada da percorre per una diffusione più ampia della CCS è purtroppo ancora in salita.

Il grosso interesse di cui ha beneficiato lo shale gas, soprattutto in USA e Canada, ha avuto come primo effetto eclatante quello di portare in secondo piano l’attenzione verso lo sviluppo di tecnologie per un impiego degli idrocarburi a zero emissioni.

La “chimera dello shale gas” (pur aumentando il tempo di vita del gas naturale sul pianeta, magari di altri 40 anni) ha offuscato l’attenzione verso la CCS, una tecnologia che in questa fase avrebbe dovuto invece rimanere prioritaria perché il livello attuale di CO2 in atmosfera è già pari a 400 ppm ed in assenza di misure appropriate si rischia di incrementare inevitabilmente il collasso climatico.

Sul fronte dello shale gas va comunque sottolineato l’importante ruolo che possono ricoprire istituti internazionali di nota affidabilità - primo tra i quali l'Agenzia Internazionale dell'Energia (IEA) - nell'elaborazione di orientamenti sulle migliori prassi nel campo dei regolamenti relativi al gas non convenzionale ed alla fratturazione idraulica. La IEA si avvale infatti di esperti per il monitoraggio del reale discostamento tra scenario di riferimento e quanto avviene sul campo: “IEA Expert Group on R&D - Priority Settings and Evaluation” - IEA Editor, F. Quattrocchi et al., (2012); “Developing Progress Towards a Clean Energy Economy” - IEA Editor, (2012).

Quali sono lo stato dell’arte e le prospettive di sviluppo dello shale gas in Europa ed in Italia?

Pressoché nulle. In primis a causa della esiguità di riserve sfruttabili ed in seconda istanza per via dell’attuale situazione politica e geopolitica affetta dalla sindrome Nimby.

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Shale gas

Ogni volta che una delle due tecnologie è menzionata, viene messa in risalto anche qualche criticità ambientale e minaccia alla sicurezza (stabilità dei terreni, rischio di rilascio di gas, contaminazione delle risorse idriche…). Quali sono le reali criticità e i rischi per la sicurezza?

Nella maggior parte dei casi le sostanze di mantenimento iniettate durante le operazioni di fracking sono del tutto naturali (sabbia, ghiaia, granuli di ceramica etc...) e per tanto geochimicamente compatibili col sistema naturale acqua-roccia-gas.

Talvolta vengono però iniettate sostanze chimiche e ciò causa preoccupazioni per i rischi di contaminazione chimica delle acque sotterranee e dell'aria. Noi studiosi ci occupiamo proprio di questo, ovvero di comprendere le evoluzioni dell’equilibrio geochimico all’ingresso degli additivi chimici e dei traccianti durante le operazioni di fratturazione.

Il primo problema riguarda il monitoraggio delle falde acquifere sotterranee da effettuarsi attraverso la misurazione dei livelli di base del metano presente in natura (ed altri geogas associati), e delle eventuali sostanze chimiche introdotte durante il fracking, oltre che degli attuali livelli di qualità dell'aria nei potenziali siti di trivellazione.

Poi vi è tutto il capitolo della sismicità indotta e della sismicità innescata, induced seismicity e triggered seismicity, che si estrinseca soprattutto con micro-terremoti (nonostante qualche scienziato si stizzisca quando si parla di micro-sismicità, essa è così definita anche in letteratura in quanto non avvertibile dall’uomo), o più raramente con episodi di sismicità avvertibile o con episodi causanti danni manifesti. Paradossalmente questo problema è meno sentito nelle aree sismiche, in quanto già avvezze a terremoti.

Diversi studiosi hanno stimato che tali episodi di micro-sismicità si sono verificati nello 0,1% - 4% dei campi a idrocarburi esaminati finora (dove 0,1% rappresenta la stima dei più ottimisti e 4% dei meno ottimisti). Ad oggi però non è ancora possibile suddividere queste percentuali sulla base delle diverse filiere di uso del sottosuolo (geotermia, stoccaggio metano, re-iniezione acque petrolifere; estrazione idrocarburi, estrazione di shale gas con fracking, etc…).

Questo rappresenta quindi il primo passo che la comunità scientifica dovrà compiere, mantenendo ovviamente la massima oggettività ed evitando ogni tipo di faziosità che propenda a “rassicurare”, o viceversa ad “allarmare”.

Si consideri in tal senso che molti governi europei - come ad esempio Francia, Bulgaria, Renania settentrionale e Vestfalia in Germania, Friburgo e Vaud in Svizzera - oltre a numerosi stati degli Stati Uniti - Carolina del Nord, New York, New Jersey, Vermont e oltre 100 amministrazioni locali - e ad altri Paesi in tutto il mondo - Sudafrica, Quebec, Nuovo Galles nel Sud Australia - hanno attualmente in essere un divieto o una moratoria sull'impiego della fratturazione idraulica per l'estrazione di olio e gas dalle formazioni scistose o da altre formazioni rocciose a bassa permeabilità. Ci vorrebbe quindi più uniformità, anche dal punto di vista legislativo.

In Europa esistono già alcune direttive riguardanti le possibili conseguenze dell’estrazione dello shale gas, ma il tutto è splittato su diversi fronti normativi (come da me e Quattrocchi pubblicato lo scorso anno su prestigiosa rivista internazionale peer review Energy), tant’è che vi è ancora molta confusione sia tra gli operatori del settore, che tra i ministeri e gli enti di controllo e di ricerca. Eccone alcune:

  • direttiva 94/22/CE del Parlamento e del Consiglio europeo, del 30 maggio 1994, relativa alle condizioni di rilascio e di esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi;
  • direttiva 98/83/CE del Consiglio europeo, del 3 novembre 1998, concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano (direttiva sull’acqua potabile);
  • direttiva 2000/60/CE del Parlamento e del Consiglio europeo, del 23 ottobre 2000, che istituisce un quadro per l'azione comunitaria in materia di acque (direttiva quadro sulle acque);
  • direttiva 2006/118/CE del Parlamento e del Consiglio europeo, del 12 dicembre 2006, sulla protezione delle acque sotterranee dall'inquinamento e dal deterioramento (direttiva sulle acque sotterranee);
  • direttiva 2003/87/CE del Parlamento e del Consiglio europeo, del 13 ottobre 2003, che istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissione dei gas a effetto serra implementata dalla decisione n. 406/2009/CE del Parlamento e del Consiglio europeo, del 23 aprile 2009, concernente gli sforzi degli Stati membri per ridurre le emissioni dei gas a effetto serra;
  • sul fronte del gas non convenzionale vi sono poi il Report dell’8 novembre 2011 ed il documento A7-0283/2012 del 25 settembre 2012 che volgono verso una direttiva europea sull’argomento, non ancora completa.

L'apparato normativo-legislativo italiano è atto ad affrontare le relative problematiche del nostro sottosuolo? Quali sono le novità normative auspicabili?

Purtroppo in Italia non vi è nulla di specifico, bensì si ragiona in termini di direttive europee da ottemperare anche nel nostro Paese.

Parliamo ad esempio della Direttiva EU 31/2009 sullo stoccaggio di CO2 recepita in Italia attraverso la Legge 162/2011, o della nota di trasmissione in materia di ambiente nei progetti sul gas di scisto, emessa il 26 gennaio 2012 dalla Direzione Generale dell'Ambiente della Commissione Europea e rivolta ai parlamentari europei.

Considerando comunque che lo sfruttamento del gas di scisto non è immune da controversie, sia nell'UE che a livello mondiale, occorre effettuare un'analisi completa dei suoi possibili effetti - sull'ambiente, sulla sanità pubblica e sul cambiamento climatico - prima di procedere verso l’ulteriore impiego di tale tecnologia ed il relativo sviluppo normativo.

Come pubblicato su Applied Energy” (F. Quattrocchi, E. Boschi – 2012), il nostro massimo sforzo dovrebbe ora mirare a concertare e sintetizzare una decina di leggi italiane relative alla gestione del sottosuolo in un’unica legge quadro che vada a sostituire normative obsolete seppur rinnovate di recente.

Citiamo ad esempio:

i) la legislazione geotermica, rinnovata solo nel 2009, ma già obsoleta alla luce delle nuove tecnologie provenienti da oltreoceano;

ii) l’ancestrale DPR del 09-04-1959 su miniere e cave che oggi è assolutamente obsoleto ai fini di nuove prospettive tecnologiche come ad esempio quella del Coal Bed Methane (CBM, noto anche come CSG - Coal Seam Gas);

iii) il DL 625 del novembre 1996 di attuazione della Direttiva Europea 94/22, relativo all’esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi, che all’art. 13 definisce norme sul conferimento ed esercizio delle concessioni di coltivazione e di stoccaggio di gas naturale (e perché non di CO2 ad esempio?);

iv) ed il successivo DL 64/2000 sullo stoccaggio del gas naturale;

v) la legge 170 del 26-04-1974 sul medesimo argomento (questa legge introdusse per la prima volta il concetto di “merging” ovvero di uso congiunto di sottosuolo tra stoccaggio gas naturale ed ex reservoir di sfruttamento idrocarburi);

vi) la legge 239 del 2004 che non prevede il “cambio di destinazione d’uso” per un sito di sottosuolo;

vii) il DPR 197 del 29-11-2009 che ha incaricato l’UNMIG (Ufficio Nazionale Minerario per gli Idrocarburi e le Georisorse) di tutti gli stoccaggi, meno che quelli sulle scorie nucleari, pur essendo essi potenzialmente “geologici”;

viii) la legge 99 del 23-07-2009;

ix) il DM 26-04-2010, anch’esso recante “disciplinare tipo per i permessi di prospezione e di ricerca e per le concessioni di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in terraferma, nel mare territoriale e nella piattaforma continentale”;

x) l’applicazione in Italia della nuovissima Direttiva Europea 31/2009 su stoccaggio geologico di CO2, che però non prevede che gli studi di approfondimento possano poi portare l’investitore (sempre più raro e disincentivato) a svolgere progetti congiunti con la geotermia o in sostituzione di stoccaggio gas naturale.

Al fine dell'accettabilità pubblica di queste tecnologie nel nostro Paese, la corretta comunicazione ed informazione ai vari pubblici che ruolo gioca o dovrebbe giocare?
A suo parere, quali sono gli strumenti e le metodologie di comunicazione più idonei alla promozione ed alla conoscenza di tali tematiche?

A mio parere vi è una sola regola, ovvero quella di avviare progetti che fin dalla primissima fase vedano seduti ad uno stesso tavolo operatori, ministeri, enti di ricerca, autorità locali ed organizzazioni non governative. In altre parole il cosiddetto debate publique francese. E poi stop alle lobby aventi interessi commerciali che non siano la produzione degli idrocarburi, in quanto appesantiscono e rallentano i progetti per perseguire propri fini.

La direttiva sulla responsabilità ambientale infine, non obbliga gli operatori a contrarre un'assicurazione adeguata che tenga conto degli elevati costi associati agli incidenti nelle industrie estrattive, ma paradossalmente se le assicurazioni obbligatorie prendessero piede, inizierebbe il cosiddetto “mercato del rischio geofisico e geochimico”.

 

*Enzo Boschi è Professore ordinario di Sismologia - Università di Bologna

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.170) 21 ottobre 2013 21:48

    Scusate ma qui si perde di vista il problema fondamentale ovvero il basso EROI. In termini pratici l’EROEI si riflette in un prezzo al barile del petrolio che deve essere alto per convenire l’estrazione del gas di scisto. Attualmente si parla di 120 dollari al barile.

    Un EROI che è assegnata a questa tecnologia è di 3 contro un valore di 10 per il fotovoltaico. Se il fotovoltaico per convenire ha bisogno di finanziamenti ed incentivi statali è ovvio che lo shale gas ha ancora più bisogno dei soldi delle nostre tasse per convenire.

  • Di (---.---.---.244) 22 ottobre 2013 16:25

    Con riferimento alla risposta - ultimo capoverso - al 1° quesito posto al Prof. Enzo Boschi, riguardo alle emissioni di Gas Serra dallo Shale Gas, vorrei offrire una precisazione:

    - A mio parere, il riferimento fatto dal Prof. E.Boschi è probabilmente lwegato alle SOLE emissioni "post-combustione", vale a dire alle emissioni al momento della produzione elettrica quando si brucia il CH4-Metano.
    Ben altra cosa è l’impatto emissivo nel "ciclo di vita" del combustibile (Shale Gas) per il quale è importante focalizzare anche (e soprattutto) le emissioni "pre.combustione", vale a dire quelle della fase estrattiva dello Shale Gas (ma proprie anche a quelle del Gas convenzionale e degli idrocarburi in genere).
    Al riguardo è forse utile andare ad esaminare il contenuto del Report emesso dalla Cornell University - Ithaca/USA dal titolo: "Methane and the greenhouse-gas footprint of natural gas from shale formations" - 

    di: - Robert W. Howart - Renee Santoro - Anthony Ingraffea.

    dove sono contenuti interessanti parametri su tali emissioni ed in particolare sul valore di conversione tra molecole di CH4 e CO2 (in termini di G.W.P.),totalmente diverse e disatttese rispetto a quelle a suo tempo comunicate da IPCC nei loro "famosi" TReports (AR4 in particolare).

    Ritornerò in seguito in merito ad altri punti dell’intervista di cui sopra. 
    Rinaldo Sorgenti 

  • Di (---.---.---.242) 1 novembre 2013 14:22

    I sauditi sono preoccupati ...

    Incredibile come sembra, il più ricco, petrolifero stato più potente del mondo potrebbe presto essere ridotto a un deserto di energia.

    L’Arabia Saudita ha costruito il suo regno sul ’oro nero’ ...

    Essa ha causato shock petroliferi, manipolato l’Occidente e ha reso presidenti stranieri prostrati davanti a sceicchi sauditi - tutto per la promessa di petrolio.

    E ’difficile immaginare che un impero potente come questo stia per finire ...

    Ma a partire da ora, credo che una sequenza di eventi potrebbe costringere i sauditi ad uscire dal business del petrolio.

    No - l’Arabia Saudita non è a corto di petrolio. Non ancora comunque.

    Ma per la prima volta nella storia, il mondo occidentale potrebbe essere in grado di ridurre drasticamente i legami con il carburante d’Arabia.

    Nessuno lo vuole.

    Ancora più importante, si potrebbe anche non averne bisogno.

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