24 anni fa la tragedia della Elisabetta Montanari, nave gasiera in secca ai cantieri navali Mecnavi di Ravenna per manutenzioni. 13 morti!
La nave "Elisabetta Montanari", era adibita al trasporto di gpl e, per normali attività di manutenzione, si trovava nei cantieri Mecnavi srl del porto di Ravenna. Alcune lamiere del doppiofondo, destinato a ospitare il combustibile presentavano un avanzato stato di corrosione e dovevano essere sostituite. I doppifondi dovevano essere bonificati, eliminando il materiale infiammabile, prima di procedere al taglio delle lamiere usurate e alla loro sostituzione. Quattro grandi serbatoi, rivestiti da uno strato di materiale coibentante, erano ospitati dalla stiva della "Elisabetta Montanari". All'interno della stiva numero 2, alle 7,30 del mattino, un giorno di marzo, iniziarono il proprio turno di lavoro diciotto lavoratori. Dipendevano da sei aziende diverse e nessun gruppo di lavoratori, era informato della presenza degli altri. Si trattava di sei carpentieri-saldatori e dodici "picchettini".
L’ambiente di lavoro era un intreccio di cunicoli nei quali “i picchettini”, svolgevano operazioni di pulizia nella stiva. Dovevano rimuovere la ruggine e i residui di combustibile colati dai serbatoi, usando palette, spazzole e raschietti, stracci. Non è un lavoro qualificato, servono forza di volontà e spirito di sacrificio: si tratta di eseguire mansioni semplici, ma particolarmente disagevoli, in condizioni di scarsa visibilità. Un lavoro sporco e rumoroso, quasi per contorsionisti, “i picchettini” devono incunearsi in ambienti ristretti e stare stesi sulla schiena o sul ventre, in spazi non più alti 80-90 centimetri. Un ragazzo che si salvò perché aveva preferito licenziarsi qualche mese prima, raccontò che si lavorava “in un buco senza uscita, sdraiati per dieci ore al giorno, con l’aria che mancava e la testa che girava per le esalazioni dell’anidride carbonica”. Lavoravano “al limite delle possibilità umane”, scrisse un magistrato.
Si eseguivano contemporaneamente diverse operazioni: mentre nel doppio fondo si facevano le pulizie, nella stiva soprastante un carpentiere stava praticando un taglio a L sotto il serbatoio per mezzo di una fiamma ossidrica.
La fiammata, improvvisa, alle 9,05. Il carpentiere si rese conto immediatamente del principio d'incendio. Tentò di soffocarlo con i propri guanti da carpentiere e con gli stracci di cui disponeva per pulirsi le mani. A questo punto un altro carpentiere, scavalcò la sella che lo separava dal collega per aiutarlo. Ma il calore della fiamma aveva, intanto, provocato lo scioglimento del catrame che cadendogli sopra l’ha alimentata al punto che non riescono a spegnere l'incendio. Poco dopo, una fiammata incendia il rivestimento del serbatoio sviluppando una notevole quantità di fumo e gas tossici, come ossido di carbonio e acido cianidrico, letale in pochissimo tempo.
A causa del buio, non tutti gli operai riuscirono a ritrovare le strette botole che li avrebbero riportati all’aperto. Morirono soffocati.
Il 13 marzo 1987, 13 lavoratori, che non erano votati al suicidio e non uscivano da casa, salutando i propri cari, immaginando che non avrebbero fatto più ritorno, sono morti. Ricordiamo i nomi:
Filippo Argnani, 39 anni, cassintegrato di un’industria metalmeccanica di Alfonsine, da un paio di settimane lavorava, in nero, nel cantiere e non era l'unico; Marcello Cacciatore, di 23 anni di Cervia; Alessandro Centioni di Bertinoro, sopra Forlì, un ragazzo di ventuno anni; Gianni Cortini, che aveva 21 anni, di Ravenna, al suo primo giorno di lavoro; Massimo Foschi, 36 anni di Cervia; MarcoGaudenzi, il più giovane nemmeno diciottenne, veniva da Bertinoro sulla collina forlivese, come Domenico Lapolla, 25 anni; Mohammed Mosad, egiziano di 36 anni, che viveva a Marina di Ravenna; Vincenzo Padua, 59 anni, a pochi mesi dalla pensione, residente nel ravennate figurava come dipendente Mecnavi; OnofrioPiegari, 19 anni anch’egli di Bertinoro; Massimo Romeo, 24 anni, al primo giorno di lavoro; Antonio Sansovini, 29 anni, fratello minore del titolare di una delle ditte subappaltatrici; Paolo Seconi, 23 anni, al suo primo giorno di lavoro, di Ravenna.
Monsignor Ersilio Tonini, l’allora arcivescovo di Ravenna, nell’omelia funebre che si tenne in Duomo tre giorni dopo, usò frasi severe: “Fossero andati i genitori a visitare quei cunicoli avrebbero detto: ‘no, figlio mio! Meglio povero, ma con noi!’ Avrebbero avvertito l’umiliazione spaventosa, la disumana umiliazione. Un ragazzo di 17-18 anni che è costretto a passare dieci ore in cunicoli dove – posso dire la parola? Non vorrei scandalizzare – dove possono vivere e camminare solo i topi! Uomini e topi! Parola dura, detta da un vescovo all’altare: eppure deve essere detta, perché mai gli uomini debbano essere ridotti a topi!”.
La relazione conclusiva del collegio di esperti (otto tecnici) nominati dal Giudice Istruttore afferma: ”… lo scenario in cui si operava rendeva l’evento catastrofico non dipendente dalla casualità ma piuttosto appartenente all’insieme delle quasi certezze” e ancora: “… al di là dei tempi e delle modalità con cui si è svolta la lunga agonia delle vittime un fatto rimane assolutamente certo e inequivocabile: per nessuno degli operai rimasti intrappolati nella stiva dopo lo sviluppo dell’incendio, vi era alcuna possibilità di fuga perché non erano state previste vie alternative d’uscita.”.
Nel libro “Nel buio di una nave”, edito dalla Bradipolibri, il giornalista bolognese Rudi Ghedini, scrive a pagina 22: «prima che la tragedia si consumasse, c’era ancora tempo per salvare, se non tutti, la maggioranza degli operai: ma la preoccupazione dei responsabili del cantiere, disse un avvocato di parte civile, “non fu quella di collaborare con i Vigili del Fuoco, ma correre a casa dei dipendenti per recuperare i loro libretti di lavoro e tentare di metterli in regola”».
Enzo Arienti, uno dei proprietari dei cantieri navali, poco tempo prima della tragedia, affermava, ostentando arroganza: “Nei miei cantieri il sindacato non è entrato. Ho sempre fatto trattative personali. La tutela? Sono convinto che chi vale, chi sa lavorare, sa tutelarsi da solo. Per la mia attività ho bisogno di gente elastica, disponibile a fare lo straordinario senza troppe storie. Paghiamo penali enormi per i ritardi delle consegne”.
Per capire la portata delle tracotanti dichiarazioni di Enzo Arienti, che sarà condannato a una pena ridicola, per la morte di 13 uomini, è sufficiente leggere un'altra argomentazione dei periti: “Una corretta organizzazione del lavoro avrebbe richiesto progettazione, pianificazione e programmazione degli interventi avendo cura di stabilire priorità e compatibilità degli stessi”.
Quel 13 di marzo del 1987, a bordo della "Elisabetta Montanari", nave cisterna, in secca, per riparazioni, si consumò la più grave tragedia sul lavoro del dopoguerra, in Italia. Le misure di sicurezza erano equivalenti a opinioni e gli uomini erano considerati alla stregua di schiavi.
Dopo 24 anni, passata la 626, la legge che detta norme per la sicurezza nei luoghi di lavoro, è la 81/08, già più volte rimaneggiata. I lavoratori continuano a morire al ritmo di 3 il giorno (escludendo quelli di cui non si trovano i cadaveri), ma poiché non hanno l'accortezza di morire insieme, a gruppi, nello stesso luogo e nello stesso giorno, non fanno neanche notizia. Dopo 24 anni, con l'INAIL (l'Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro), che occulta i dati sugli infortuni sul lavoro, impedendo il formarsi e il consolidarsi di quella cultura di cui lamenta la mancanza, un ministro chiave del governo in carica afferma che la sicurezza sul lavoro è un lusso che non possiamo permetterci. Dopo 24 anni, possiamo affermare che il pensiero degli imprenditori non sia ancora quello così chiaramente manifestato dall'imprenditore di Ravenna, colpevole della morte di 13 lavoratori?