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 Home page > Tribuna Libera > 1917 Ottobre rosso, curato da Antonio Carioti

1917 Ottobre rosso, curato da Antonio Carioti

Una bella sorpresa. Il volume 1917 Ottobre rosso curato da Antonio Carioti per il Corriere della sera, e per cui avevo accettato di scrivere un capitolo su Lev Trotskij, è venuto meglio di quanto mi potessi aspettare. Temevo di dovermi scusare con qualche intransigente che segue il mio sito per aver accettato di pubblicare un mio scritto in una pubblicazione legata al “principale organo della borghesia”... ma il libro di discutibile e pregiudizialmente ostile alla rivoluzione ha solo la prefazione di Sergio Romano e soprattutto l’introduzione di Ernesto Galli della Loggia, e poco altro. Evidentemente ciò si deve al rigore di storico del curatore, che non ha fatto molte concessioni all’impostazione prevalente sul quotidiano.

Un’altra sorpresa viene da un’intervista a uno dei più importanti storici russi, Boris Kolonitsky dell’università europea di San Pietroburgo, che spara a zero nei confronti della più sistematica delle calunnie nei confronti dell’Ottobre, quella che lo presenta come un putsch realizzato da una piccola setta in nome della sua ideologia. Kolonitsky forse “torce il bastone” un po’ troppo, sostenendo che la rivoluzione d’Ottobre sarebbe stata possibile anche senza l’impulso di Lenin. Più in là dice che anche Trotskij, che pure “ebbe un ruolo importante nel moto che condusse alla presa del Palazzo d’Inverno”, non sarebbe stato indispensabile. Raccomanda di non cadere “nella personalizzazione della storia”:

Sia senza Lenin sia senza Trotsky il conflitto tra il soviet di Pietrogrado e il governo provvisorio sarebbe esploso. Magari l’insurrezione non avrebbe avuto una guida così salda e capace, perché senza dubbio entrambi furono leader politici di talento, ma tra i bolscevichi c’erano molti valorosi esponenti di secondo piano, e così tra i loro alleati. Lo scontro ci sarebbe comunque stato e il soviet avrebbe avuto la meglio. (pp.92-93)

La conclusione è ottimistica (di rivoluzioni mature che sono state sconfitte per errori di chi avrebbe dovuto proporre in tempo uno sbocco ce ne sono state fin troppe, a partire da quella tedesca), ma le intenzioni di liquidare la sciocchezza sul “colpo di Stato” di una minoranza sono ottime. Assurdamente solo Luciano Canfora continua a dar credito al libercolo di Malaparte, e lo riprende anche per definire così il tentativo dell’Opposizione di sinistra di recuperare il diritto di manifestare il 7 novembre 1927, decimo anniversario della rivoluzione.

Un altro paio di saggi sono largamente condivisibili: il primo è quello di Lorenzo Cremonesi sul “suicidio dello zar”, che ricostruisce le scelte politiche di Nicola II che hanno contribuito pesantemente all’incubazione della Grande Guerra, e la sua strategia militare che l’ha resa catastrofica per la Russia. Il secondo è di Antonella Salomoni, su “l’azzardo dei bolscevichi: come presero e mantennero il potere”, che è sostanzialmente corretto nella prima parte che ricostruisce la tattica che li porta alla vittoria, e le prime misure prese dal Consiglio dei Commissari del popolo, con una sola svista grave. La Salomoni dice che “si trattava semplicemente d’incorporare nella legislazione comunista le misure di difesa della forza lavoro che gli operai avevano da tempo ottenuto nei regimi borghesi (per esempio la giornata lavorativa di otto ore)”, mentre è esattamente il contrario: la riduzione di orario fu imposta nelle fabbriche di Pietrogrado dai consigli di fabbrica, contro le esitazioni dei menscevichi e dei socialrivoluzionari, già in maggio, prima di qualsiasi legge del governo provvisorio, e solo a guerra finita fu concessa in quasi tutti i paesi europei per arginare le proteste operaie e anche per le necessità della riconversione dell’industria bellica che era cresciuta a dismisura. Altre minori incomprensioni riguardano il dibattito sul “comunismo di guerra”, e attribuiscono a tutto il partito bolscevico le posizioni dei “comunisti di sinistra” come Bucharin e Preobrazhensky. Ma questo si deve alla diffusa incomprensione della ricchissima dialettica interna del partito bolscevico, che si stenta a intravedere dietro lo schema ideologico che lo descrive sempre come “monolitico”, mentre solo nel 1921 viene soppresso il diritto di costituire frazioni con cui aveva funzionato non solo alla vigilia della rivoluzione, ma durante gli anni del durissimo assedio e della feroce guerra civile.

Tra i dodici saggi ce ne sono anche alcuni ostili alla rivoluzione, in genere per motivi ideologici. Ad esempio l’intervista a Nikita Mikhalkov, il magnifico regista di Sole ingannatore, che è monarchico e seguace di Putin e soprattutto abbastanza confusionario. Comunque riconosce qualche merito a Lenin, che era “pragmatico”, e avrebbe fatto altre cose positive se “avesse avuto la forza di governare a lungo”. In ogni caso, conclude, “tutto venne distrutto immediatamente dopo la sua morte”. Pessimo il breve saggio di Giovanni Codevilla, che ripete sempre lo stesso elenco di preti vittime del comunismo senza mai accennare alla partecipazione della Chiesa ortodossa all’organizzazione delle Armate controrivoluzionarie. Saperlo spiega come mai sono diventati "vittime": nel quadro di una spietata guerra civile. Interessanti i saggi di Marcello Flores sulla nascita del Comintern e di Natalia Terekhova sulle ripercussioni dell’Ottobre in Italia. La Terekhova ha fondato la prima società russa di studi gramsciani.

Ma c’è ancora una cosa da sottolineare: il volume è curato attentamente ed è corredato non solo da un utile indice dei nomi, ma da una cronologia dettagliata e da profili biografici ineccepibili dei principali protagonisti. In un epoca di scadimento progressivo dell’editoria, non è poco!

Questo articolo è stato pubblicato qui

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