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Washington-Kabul, la cooperazione dell’illegalità

La vicenda di Haji Bashir Noorzai liberato dalla giustizia americana e barattato con l’ingegnere-contractor statunitense Mark Frerichs, che era detenuto a Kabul, ha diversi risvolti. Il primo, più evidente, lo scambio ufficiale di prigionieri fra le due nazioni, e di fatto un riconoscimento da parte americana dell’autorità talebana. 

In realtà tutto ciò avveniva anche durante il conflitto fra US Army e insorgenza dei turbanti. Tre presidenti statunitensi (Obama, Trump, Biden) dal 2009 al 2021, in più riprese, hanno colloquiato coi nemici e infine stabilito accordi per l’evacuazione militare dal Paese. Questa mossa, sebbene non sia ampiamente diffusa dai media rispetto alla sicuramente più grave coercizione femminile, sancisce il rafforzamento della linea del confronto, condotta dalla fazione moderata dei talebani di governo. Lo sottolinea con enfasi uno dei suoi esponenti: il ministro degli Esteri Muttaqi. Restano al palo i duri di Kandahar e il clan Haqqani che non s’è proprio curato della faccenda, forse per rispetto al passato di Noorzai, che, come vedremo, ha a che fare con le origini del movimento degli studenti coranici. Certo, l’amministrazione Biden non può continuare a rilanciare il veto politico-economico sull’Emirato nel momento in cui gli Stati Uniti stabiliscono accordi diplomatici coi nemici d’un ventennio che loro stessi hanno deciso di chiudere. E con fretta estrema. Anche la questione del blocco dei miliardi afghani congelati nelle banche occidentali sta prendendo una via di soluzione, per quanto univoca perché quei 3.5 miliardi finora dirottati verso un fondo svizzero per essere destinati all’emergenza umanitaria non giungono nelle mani dell’Emirato, cosa che non piace anche ai turbanti del dialogo. Sono i ‘giri di valzer’ tipici di tutti gli inquilini della Casa Bianca che fanno e non fanno, fanno e negano, fanno in via riservata o palesemente segreta, perché agli occhi degli elettori vogliono sempre mostrarsi come gli “eroi senza macchia” esaltati dalla propria propaganda.

La realtà non è quella che appare e la storia dell’Escobar dell’Hindu Kush, come veniva definito dalla stampa d’Oltreoceano Noorzai, nonostante fosse nativo del sud, appunto Kandahar, non fa eccezione. Dopo aver combattuto i sovietici come mujaheddin, ha rifornito i talebani degli armamenti ricevuti dagli Usa nel precedente periodo e anche in fasi successive. Il rapporto era talmente fiduciario che Noorzai divenne un collaboratore del governo di Washington che gli forniva protezione. L’interesse per l’affarismo dell’oppio che l’ex mujaheddin mostrava non era un segreto per la Cia, la quale comunque chiudeva entrambe gli occhi. Tantoché pur essendo in cima alla lista dei narcotrafficanti l’afghano continuava apertamente i suoi affari. Nel 2005 Noorzai fu convocato a New York per un incontro “sotto copertura”, visti i precedenti non si fece problemi e partì. Tempo dieci giorni venne arrestato, sottoposto a un processo come pericoloso trafficante di oppio e derivati e successivamente condannato all’ergastolo. Era il 2009. Nello stesso periodo, Hamed Wali Karzai, uno dei fratelli del presidente del governo di Kabul collaborazionista con l’occupazione Nato, che già risultava governatore della provincia di Kandahar, veniva indicato da un’inchiesta giornalistica del New York Times come agente della Cia incaricato di organizzare in quell’area un gruppo paramilitare di soli afghani che praticasse operazioni di Extraordinary rendition. L’uomo, tutt’altro che uno stinco di santo e accusato di appropriamenti illeciti di fondi destinati alla popolazione, nonché di corruzione di giudici, era anche un narcotrafficante. Dopo l’arresto e la condanna di Noorzai, Karzai junior non restò a guardare né fu estraneo alla ricollocazione e al controllo sulla coltivazione del papavero da oppio compiuta dai nuovi boss nelle varie province. Anzi, rispetto ad altri affaristi dell’eroina poteva far pesare la prossimità familiare col potere centrale e l’inquadramento nell’Intelligence a stellestrisce. Entrambi non gli furono d’aiuto. I colpi d’un sicario, sua guardia del corpo, lo finirono un paio d’anni dopo. L’ipotesi d’un regolamento di conti fra i signori della droga rientrava a pieno in quell’assassinio, nonostante il governo e il fratello-presidente indicassero nei talebani i mandanti dell’esecuzione. Allora come ora nella malaterra afghana Washington e Kabul sono sodali.

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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