"Vincere", di Marco Bellocchio
Lo sguardo fisso, in Avanti!, rivolto al muro (e all’infinito da conquistare oltre esso) di Filippo Timi mentre violentemente penetra, o meglio, mentre violentemente Giovanna Mezzogiorno-Ida Dalser lo consuma nel proprio ventre e gli grida «Amore», avvisa lo spettatore di ciò che la Storia (le) riserverà negli anni a venire. Cioè passione prima biunivoca e pubblica; poi unidirezionale e segreta; infine, saranno indifferenza e odio che si snodano e si scontrano sullo sfondo dell’annientamento dell’italica coscienza.
Ida è la sola che urla contro il Duce sulla pubblica piazza: e se le viene risparmiata la vita, è solo in nome di quel figlio, legalmente riconosciuto, e di un certificato di matrimonio che se trovato frantumerebbe l’immagine del Duce buon padre della [patria] famiglia.
Gli occhi della Mezzogiorno, alla sua più grande interpretazione, rivendicano da subito il centro del palcoscenico futurista: prima trepidamente concupiscenti del corpo e delle ferite del giovane Mussolini-Timi; poi ossessivamente visionari, tanto da vendere tutti i suoi beni per il balcone di Piazza Venezia, pensando ingenuamente che ci sarà lei al fianco del Duce, e tanto che nemmeno il primo assaggio di manicomio riuscirà a convincerla che Mussolini l’ha tradita; quindi ferinamente vogliosi di femminea vendetta per l’identità negata e la pubblica umiliazione che ne segue.
Ma sono le sue meravigliose lacrime chapliniane che ci riportano alla tragedia appena consumata: un figlio tolto ad una madre è atroce delitto, solo per vigliacchi, anche (e di più) se in stivali neri e uniforme con gradi. Perfino la misericordia fatica a scardinare la connivenza col fascismo: scienza e religione si riparano dietro le porte del manicomio, e simboleggiano il periodo più buio della storia di questo paese e di questo popolo. Che ha poca e cattiva memoria, sembra voler dire Bellocchio: basterà un capolavoro?
Piazza Venezia è sempre a Roma.
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