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Verso l’uguaglianza generazionale nella precarietà del lavoro

In periodi di crisi ci si focalizza su determinati temi che si presumono essere all’origine del problema da risolvere. E si parla, si discute, ci si accapiglia, perdendo il più delle volte l’occasione di approfondire l’analisi delle vere cause della crisi (tra cui l’aumento della disoccupazione).

Vale la pena di prendere in considerazione quanto tra l’altro dice Joseph Stiglitz - premio Nobel per l'economia nel 2001- che è arrivato a dire: "Oggi la gente comune perde, mentre la grande finanza guadagna ancora di più. Bisogna imporre tasse molto alte sui guadagni di capitale. Oggi è più vantaggioso speculare che lavorare per vivere. Deve tornare ad essere il contrario".

In questa affermazione sono sinteticamente ed efficacemente espressi due fenomeni in corso di enorme portata, che stanno sconvolgendo addirittura l'assetto antropologico del mondo: la "finanziarizzazione dell'economia" (cioè il passaggio dal capitalismo produttivista - quello che investe il denaro per la produzione di merci traendone profitto - al capitalismo dei mercati finanziari - quello che lucra denaro per mezzo del denaro) e "l'approfondimento finanziario" (ossia la penetrazione dei mercati finanziari in ogni settore e ad ogni livello della vita sociale, che ha generato una redistribuzione del reddito di portata senza precedenti dal "basso verso l'alto").

Infatti l’adesione al paradigma della massimizzazione del valore per gli azionisti ha comportato, grosso modo a partire dagli anni ’80, l’adozione di una nuova concezione dell’impresa. Essa non doveva più venire concepita come un’organizzazione nella quale ogni parte è legata alle altre e il cui comportamento tocca gli interessi di molti gruppi, dai dipendenti ai fornitori e alla comunità locale, oltre a quelli degli azionisti.

Doveva invece essere concepita come un "portafoglio" di attività (nel duplice senso di cose che si fanno e di attivi finanziari), connesse solamente in via temporanea da un contratto; un conglomerato di impianti, mezzi di produzione ed uffici, di cui ogni pezzo deve essere monitorato di continuo, al fine di stabilire se il suo rendimento finanziario, ovvero il flusso di cassa che genera o contribuisce a generare, sia pari o superiore a quello dei pezzi migliori della concorrenza.

Se tale rendimento è in sé elevato, ma appare inferiore anche soltanto di poco a quello della concorrenza, quel pezzo dell'impresa va ristrutturato al più presto, oppure venduto, o definitivamente chiuso. Ciascuno di questi interventi determina come è ovvio il licenziamento di gran parte dei relativi addetti, e talora di tutti. Ma di questo non debbono preoccuparsi i manager, dicono i teorici dell'impresa come mera entità finanziaria.

La sola finalità che l'impresa deve perseguire è quella di creare valore per gli azionisti. Il modo in cui lo crea è un elemento secondario. Di fatto il modello di “downsizing” (ridimensionamento) - compendiabile nel precetto “taglia gli impianti e l’occupazione, distribuisci maggior valore agli azionisti”- è stato applicato e viene applicato in quasi tutti i settori dell’industria contemporanea, nella maggior parte dei paesi sviluppati.

Adesso il prosieguo del processo di finanziarizzazione necessita che anche l’Italia metta a soqquadro le regole del lavoro e quindi proceda all’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (ed altro) e purtroppo la disoccupazione giovanile viene agitata come grimaldello per secondare una perversa operazione di sostegno della finanziarizzazione dell’economia. Si renderebbero così uguali anziani e giovani, in quanto entrambi ridotti in precarietà. Bella prospettiva.

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