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Vasco e Amanda: il vuoto dei social network

Per lavoro frequento siti di informazione una dozzina di ore al giorno; per passione altre tre o quattro. In totale fanno circa 15-16 ore passate sempre più spesso a navigare tra i social media, fonte primaria nel mio caso (e in molti altri) di notizie.

E’ un bel cambiamento, registrato peraltro in tutti i rapporti analitici dell’utilizzo di Internet: gli utenti trascorrono sempre più tempo sui social network (il 22,5% per l’esattezza secondo Nielsen, se si conta anche il tempo trascorso sui blog). Ma sono quasi certo che per chi lavora nel mondo dell’informazione, le percentuali siano ben più elevate.

Ebbene, oggi in queste 15-16 ore è stato difficile, se non impossibile, non lasciarsi distrarre dalla marea di commenti per il caso Vasco-Nonciclopedia. Per la maggior parte, insulti, dileggi e apprezzamenti sprezzanti sull’ex rocker ormai ridotto all’ombra di se stesso.

Qualcuno, come Alessandro Gilioli, ci ha intravisto l’unico vero lato degno di nota: una possibile esemplificazione della facilità con cui chi può permettersi un team di avvocati può indurre all’autocensura i gestori di un blog o di un sito. Ma per il resto si è trattato di un dibattito futile e che tuttavia mi sono trovato a seguire un po’ per pigrizia, un po’ per abitudine, un po’ per morbosità. E un po’ perché anche questo è il mio lavoro.

Altra notizia che ha monopolizzato l’attenzione in rete è stata l’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito nel caso Meredith. Anche qui una notizia, certo, ma amplificata all’inverosimile, con dirette tv e prime pagine come queste

che non si vedevano dai tempi dell’uccisione di Osama Bin Laden. Insomma, anche in questo caso, impossibile non finire travolti dal flusso di informazioni e, in qualche misura, costretti a fruire dei contenuti offerti con tanta insistenza su quei temi.

Sarà stata la concomitanza di due notizie a cui non sono riuscito ad affezionarmi, ma oggi la sensazione di vuoto che mi hanno lasciato queste 15-16 ore di navigazione mi ha portato alla mente un meraviglioso post di Adrian Short in cui ci si chiede se a trasferirsi in modo così pervasivo nella rete 2.0 non si finisca per perdere quella libertà che solo un web "aperto" era in grado di assicurare.

Percorsi individuali e diversi, dunque, che di certo avvengono in ogni istante anche ora, ma che a volte non sono incentivati (anzi, molto probabilmente è vero il contrario) dall’architettura dello strumento che stiamo usando,dai suoi cambiamenti recenti portati alle estreme conseguenze, dall’adozione di massa a Facebook e, per chi fa informazione, Twitter.

Mi è venuto in mente insomma tutto il discorso di Jaron Lanier sull’importanza della forma nella creazione del contenuto, del mantenimento della propria singolarità nelle forme e nei modi espressivi e dell’importanza che la rete sia strutturata in modo tale da favorirne lo sviluppo, piuttosto che indirizzare tutti gli utenti verso un canale che tende, nel peggiore dei casi (per esempio, la giornata odierna), ad essere lo stesso per tutti.

Una prospettiva non rassicurante per chi crea, ma nemmeno per chi fa informazione. Perché se è vero che le fonti si moltiplicano, gli stimoli rischiano di inaridirsi e di conseguenza, rischia che si riduca la varietà delle conversazioni.

Saranno state le due notizie che proprio non mi andavano a genio, ma forse oggi ho toccato per la prima volta con mano la sensazione che senza i social network avrei lavorato meglio. Ed è un pensiero che lascia una strana amarezza nella bocca.

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