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Vancouver 2010 - L’era delle nuove scuole

Vancouver 2010 - L'era delle nuove scuole

Le Olimpiadi invernali sono da sempre dominate dai pochi paesi in cui il bianco, ogni inverno, si fa vedere. Per decenni Unione Sovietica, nazioni alpine, scandinave e qualche fiore delle Mitteleuropa, al di là delle Germanie sempre al massimo in ogni competizione e spruzzi di Nord America, hanno retto la scena. Da almeno 10 anni a questa parte però c’è la prova di un’inversione di tendenza, a cui Vancouver 2010 ha aggiunto un altro indizio.
 
Prendiamo il biathlon, passato dal duopolio Germania-Russia (doppia vittoria di Frank-Peter Roetsch, tedesco dell’Est nella 10km e 20km di Calgary ’88, davanti al sovietico Valeri Medvedtsev in tutti e due i casi, mentre per le donne si potrebbe riportare il podio di Albertville ’92 della 7,5 km, con l’oro di Anfissa Reszova della CSI, argento della tedesca Antje Misersky, poi oro nella 15 km, e bronzo di Elena Bjelova), al dominio degli scandinavi, norvegesi su tutti con l’astro Bjørndalen che sconvolge Nagano ’98 insieme a Halvard Hanevold, mentre nel femminile i due colossi restavano Germania e Russia. I grandi protagonisti del biathlon a Vancouver, dopo un’annata strepitosa anche nella Coppa del mondo, sono stati i francesi, oro e bronzo di Vincent Jay nella 10 km sprint e nella 12,5 km ad inseguimento e argento di Martin Fourcade nella 15 km. Prima di loro, l’unico grande risultato è stato quello di Raphaël Poirée, oro nella 12,5 km ad inseguimento di Salt Lake City, mentre Torino 2006 aveva già posto le premesse per le prove olimpiche di Vancouver, con l’oro fortunato di Vincent Defrasne nella 20 km. A Torino, dopo poche prove positive nelle Olimpiadi precedenti è iniziato a crescere anche il biathlon femminile francese, con l’oro di Florence Baverel-Robert nella 7,5 km e il bronzo della staffetta. Quest’anno l’intera squadra femminile ha dimostrato ancora maggiore freschezza e grandi materiali, portando a casa due bronzi con Marie Dorin e Marie-Laure Brunet e l’argento nella staffetta.
 
Lo sci di fondo è stato per anni sovietico (a Calgary ’88 gli ultimi squilli dei grandi orchi russi come Mikhail Devyatyarov, Alexey Prokurorov e Vladimir Smirnov in campo maschile e di Vida VencienÄ— e Tamara Tikhonova per le donne), ma dallo smembramento dell’Unione ha cambiato spesso riferimenti, passando per le vittorie italiane e norvegesi degli anni ‘90 (anche se il dubbio Conconi fa ancora brutto). Già Torino 2006 aveva segnato un’inversione di tendenza, con le vittorie svedesi nelle prove sprinti e il ritorno degli ex-sovietici, grazie ad una grande Estonia, vincitrice della 15 km TC con Andrus Veerpalu e del doppio oro di Kristina Šmigun. A Vancouver, nuove nazioni alla ribalta, come la Svizzera del fuoriclasse Dario Cologna, la Germania con la vittoria della Sprint donne, la Repubblica Ceca negli uomini con Lukáš Bauer e la Polonia nelle donne con Justyna Kowalczyk. A mantenere la leadership resta ancora la Norvegia grazie ai due migliori fondisti del mondo: Petter Northug e Marit Bjørgen. L’Italia diventa mediocre e all’orizzonte c’è poco.
 
Nello Short Track, ammesso alle Olimpiadi di Calgary ’88 come sport dimostrativo per volere delle federazioni asiatiche, mantiene una forte matrice sudestasiatica, con i sudcoreani a fare man bassa sia con gli uomini che con le donne (primo oro nei 100m uomini ad Albertville 92 è di Kim Ki-Hoon, mentre il britannico Wilf O’Reilly, che aveva vinto due ori a Calgary, scomparve). Anche il Canada ha da sempre imposto la sua legge alle Olimpiadi (spedizione trionfale è stata soprattutto quella di Salt Lake City con l’oro di Marc Gagnon nei 500m e la vittoria in staffetta). Apolo Anton Ohno è stato l’astro statunitense in diverse Olimpiadi e tutto questo a Vancouver si è perfettamente ripetuto, però mentre fra gli uomini Canada, Corea del Sud e USA si sono presi tutto, fra le donne, canadesi e coreane hanno lasciato spazio allo strapotere cinese, capaci di vincere tutte le gare con due stelle ad oggi il meglio dello Short Track mondiale in senso assoluto: Wang Meng e Zhou Yang
 
Nel pattinaggio velocità resta, imperterrito, il moloch olandese (negli ultimi 20 anni ci sono stati campioni come Bart Veldkamp, Ids Postma, Jochem Uytdehaage, Marianne Timmer e Ireen Wust), ma arriva una nazione fino ad oggi assolutamente fuori dai giochi: la Corea del Sud, fortissima nello Short Track, ma oggi nuova potenza della pista lunga grazie alle prestazioni e le medaglie di Mo Tae-Bum e Lee Seung-Hoon tra gli uomini e Lee Sang-Hwa tra le donne. Ovviamente tra le donne non si possono non sottolineare le grandi prove della ceca Martina Sáblíková, ma più che scuola è la forza di una campionessa a fare la differenza.
 
Infine lo Sci Alpino, che di alpino puro sembra avere ancora poco. Italiani, austriaci, francesi, sloveni con la bocca amara (solo l’oro di Andrea Fischbacher nel Super gigante femminile salva la baracca austriaca insieme ai bronzi di Elisabeth Görgl, mentre Tina Maze piazza due argenti stupendi e Razzoli fa la gara della vita… quanto saprà richiamare alla mente Tomba da oggi in poi?), e a salvare l’onore delle Alpi restano gli svizzeri con le vittorie di Defago nella Discesa Libera e Carlo Janka nel Gigante. A dominare gli statunitensi (Miller e Vonn gli uomini copertina) insieme ai solidi norvegesi e le tedesche (Viktoria Rebensburg oro nel Gigante e Maria Riesch, doppio oro in Slalom Speciale e Supercombinata). 
 
Lo slittino non ha invece cambiato nessuna gerarchia, consolidata da anni di dominio e vittorie olimpiche e mondiali. I 3 colossi sono Germania, Italia e Austria, con una piccola nota per il futuro. Mentre l’Italia vince un bronzo grazie alla grandezza di un campionissimo quasi al tramonto come Zoeggeler, la Germania ha i campioni del futuro: Felix Loch e Natalie Geisenberger

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