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Una politica culturale per rilanciare l’Italia

Con la cultura non si mangia, dice il ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Eppure basta guardare all'estero per accorgersi come una politica culturale seria possa divenire una leva di sviluppo economico e possa in maniera virtuosa determinare filiera con i settori produttivi. Nel nostro paese ci sarebbero tutte le condizioni, in particolare perché abbiamo un patrimonio di conoscenze probabilmente insuperabile, il cosiddetto Italian Style, dove si fondono cultura scientifica e cultura umanistica, creatività e industria.

Un’impressione sempre più forte è che tutto il mondo percepisca il Made in Italy (i prodotti industriali e artigianali italiani) come un’espressione diretta dell’Italian Style, una conseguenza del patrimonio culturale italiano, quindi un frutto della cultura italiana. Tutto il mondo, tranne noi.

Qui, infatti, il Made in Italy è ancora strettamente e presuntuosamente connesso a due ambiti: il lusso e la creatività. Per quanto riguarda il lusso, esso è tuttavia concepito secondo una considerazione errata e antica che lo associa ad altri significati forti: esclusività, artisticità, elitarismo, ricchezza, costo elevato, mentre oggi il concetto di lusso è oggetto di una dilatazione significativa, che coinvolge aspetti di natura intima, riconducibili alla sfera del benessere e dell’equilibrio personale. È divenuto un concetto molto ampio, in cui taluni significati (elitarismo, costo elevato, ricchezza) non sono più necessariamente ad esso connessi. Dunque: un oggetto può essere lussuoso anche se non costoso, anche se non elitario. Il Made in Italy, tuttavia, non ha ancora compiuto questo salto valoriale.

Un equivoco simile investe anche il concetto di creatività, termine col quale, riferito al Made in Italy, si vuole significare una certa artisticità, piuttosto che una diffusa disposizione umana di produrre, in qualunque ambito, idee originali, di unire cose e concetti in maniera inaspettata. Quindi: l’ingegneria è creativa, la tecnologia è creativa, la botanica è creativa. Nel resto del mondo, in particolare in alcuni paesi emergenti, ma dalle forti radici culturali (India; Iran) lo sanno bene, mentre qui da noi lo abbiamo dimenticato, cosicché il Made in Italy è connesso esclusivamente ad ambiti ambiguamente artistico/creativi (moda, design, architettura, etc.), ma non sfiora neppure i settori più avanzati dell’industria contemporanea, in particolare quelli legati ai new media, alle new technology. In tal senso, allora, il Made in Italy è limitato (autolimitato) e arretrato.

L’impressione che se ne ricava è quella di un ritardo culturale abissale, incapace di liberarsi di vincoli e di pregiudizi e allo stesso tempo incapace di immaginare un modo diverso di produrre e quindi di manifestare l’Italian Style. Alla fin fine, dunque, incapace di leggere le dinamiche di consumo, di comprendere i meccanismi che attraggono e che spingono a consumare e vivere i prodotti e le esperienze. L’impressione di fondo è che l’Italia (proprio l’Italia) manchi di una consapevolezza culturale, carenza che si traduce in una assenza di politica culturale, cioè in una assenza di visione strategica complessiva che consideri la cultura una risorsa alla stregua delle altre, ossia in grado imporsi come una delle leve forti dello sviluppo economico.

Alcuni dei paesi che negli ultimi anni hanno fatto registrare significative perfomance di crescita e di competitività (Irlanda, Giappone, Canada, Spagna, Australia, paesi scandinavi, Benelux, e alcune aree degli Usa) hanno fatto della politica culturale uno degli asset portanti della propria politica economica, uno degli elementi centrali attorno ai quali è stato pensato e sostenuto nel lungo periodo lo sviluppo. Nello stesso decennio da noi la competitività è scaduta ai minimi storici e la politica culturale si è limitata ad un fiorire di grandi eventi e di grandi mostre che, fra l’altro, collocate in un contesto debole come il nostro, oggi non funzionano più, perdendo pubblico e disperdendo capitali.

Quei paesi, invece, ci segnalano che avere una politica culturale significa comprendere che è in corso una radicale trasformazione dei sistemi motivazionali delle persone, per cui il tempo libero e la sua occupazione (o consumo) ha assunto una centralità vitale per gli individui. Ci segnalano che perseguire una politica culturale significa possedere una visione strategica complessiva della cultura, mettere cioè in atto politiche non episodiche e residualiste, non conservative, ma al contrario profondamente laiche, transdisciplinari, fondate sul legame fra arte, scienza e tecnologia, piuttosto che sulla loro separazione. Potrebbero insegnarci, infine, che avere una politica culturale significa pensare alla cultura come qualcosa di vivo e di dinamico, un laboratorio e una sperimentazione costanti, capaci di generare sì sviluppo sociale, elevazione culturale e aumento della scolarizzazione, ma anche crescita dei mercati culturali e soprattutto spillover verso altri settori dell’economia, dai servizi, all’industria manifatturiera, al turismo.

Secondo questa visione, allora, dotarsi di una politica culturale significa pensare alla cultura come una risorsa destinata alla propria collettività, significa avere una politica interna della cultura, ossia una visione e un progetto tesi a generare innanzitutto un clima utile e fecondo per la comunità, che, forte e consapevole del patrimonio prodotto e accumulato nel passato, si alimenta coi bisogni, le istanze e le idee generate giorno dopo giorno dalle persone e dalle imprese. Significa dare luogo ad una comunità culturalmente orientata e significa dotarsi di un piano a lungo termine che, facendo leva su tale orientamento, rafforzi la propria presenza sullo scenario internazionale per competere sui mercati globali.

In Giappone, una nazione tradizionalmente orientata all’innovazione e alla tecnologia, da circa sei anni hanno puntato sulla cultura come leva di sviluppo economico e hanno attuato un master plan a medio termine fondato su sei obiettivi: rilancio delle attività creative e loro sviluppo; promozione delle culture regionali; formazione delle persone nel sistema produttivo culturale; promozione della cultura giapponese e del suo contributo alla cultura globale; sviluppo di infrastrutture per la promozione della cultura giapponese. I primi risultati tangibili si sono riscontrati dopo appena quattro anni, con un aumento dei consumi culturali interni superiore al 10% e con una progressiva centralità della specificità locale nella produzione di beni e di prodotti. I giapponesi non copiano più. Ma noi potremmo copiare loro e iniziare a renderci conto di ciò di cui tutti gli altri si rendono conto tempo, che il Made in Italy è frutto diretto della cultura italiana. E poi regolarci di conseguenza.

Commenti all'articolo

  • Di aellebì (---.---.---.72) 29 marzo 2011 16:07
    aellebi

    ’I giapponesi non copiano più. Ma noi potremmo copiare loro e iniziare a renderci conto di ciò di cui tutti gli altri si rendono conto tempo, che il Made in Italy è frutto diretto della cultura italiana. E poi regolarci di conseguenza.’
    Esatto, caro Pittèri.
    Conosco la lingua e la cultura giapponese da qualche decina d’anni, con le sue molte luci e le sue molte ombre.
    A questo riguardo hai proprio ragione.
    Ma finché manderemo al potere, per arricchirsi a spese del pubblico erario, sopra e sotto, soprattutto, il banco, accapararsi privilegi immeritati, non fare niente o fare poco e male, gente che spara queste cazzate, per ignoranza e ottusità, che cosa vuoi combinare?
    E non ne faccio una questione, o meglio, non è solo una questione, di schieramento politico, con il beneficio o maleficio... d’inventario, anche se io non sono certo in favore di questa ’banda’ che attualmente ci saccheggia.
    Una politica culturale vera, potente, efficace, lungimirante, non ce l’ha mia avuta nessuno.
    E quando c’è stata non è stata una politica culturale, ma una cultura ideologico-politica.
    Si occupano le poltrone per ’bloccare’ la cultura avversaria, non per sviluppare i prodotti secolari, millenari in alcuni casi, dell’ingegno che pochi altri paesi hanno.
    Che tristezza, che rabbia.

    Alberto L. Beretta,
    area milanese.

  • Di pv21 (---.---.---.79) 29 marzo 2011 20:09

    Fronte e retro >

    Il PIL del 2010 è pari al 94,7% di quello ante-crisi (2007).
    Dal 2008 l’inflazione è cresciuta del 7,4% e la capacità di spesa delle famiglie si è ridotta di oltre 1300 euro.
    Il Debito pubblico è aumentato di oltre 210 miliardi ed ha raggiunto i 1880 miliardi.
    L’indebitamento privato delle famiglie è cresciuto del 28,7% superando i 20mila euro.
    Nel 2010 il 53% dei pensionati vive in condizioni di precarietà economica e la disoccupazione “reale” staziona all’11%.
    “Siamo nella direzione giusta”, commenta Tremonti.

    “Solo noi possiamo ammodernare l’Italia”, assicura Berlusconi.
    Nel corso del 2010 il reddito del Cavaliere è cresciuto di 17,8 milioni (+75%) raggiungendo quota 41 milioni.
    Sempre nel 2010 Berlusconi ha visto crescere l’utile netto di Mediaset del 29% (+80 milioni) ed il suo dividendo del 59%.

    Intanto la crisi, ex-ripresa passata a “semi-crescita”, pesa su imprese e famiglie come Se fosse Stagnazione

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