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Una manovra per crescere meno: -0,5% del PIL da qui al 2012

E’ evidente che una manovra fatta di tagli alla spesa pubblica sia esattamente il contrario di quello di cui l’economia reale ha bisogno; se le ricette di Keynes valgono ancora qualcosa, il Governo italiano ha scelto bellamente d’ignorarle e lo ha fatto, stando alle cifreche il Tesoro fornisce, con perfetta coscienza delle conseguenze.

Una manovra per crescere meno: -0,5% del PIL da qui al 2012

La manovra economica in via d’approvazione comporterà, nei prossimi tre anni, una riduzione del PIL italiano dello 0, 5%. Il dato, che pecca forse d’ottimismo – ricordiamo che 24 miliardi, l’importo della correzione, sono pari allo 1, 6 % del nostro PIL – non è la previsione di qualche gruppuscolo d’oppositori; è quello fornito dal Ministero dell’Economia alla Commissione Bilancio del Senato in una tabella che stima in una riduzione del 0,1% l’effetto della manovra per il 2010 e in un’ulteriore riduzione del 0,2 % nei due anni successivi. La crescita della ricchezza prodotta nel paese nel 2010, che era avrebbe dovuto essere dello 1% secondo le previsioni contenute nella Relazione unificata sull’economia e la finanza, sarà quindi solo dello 0,9%.

 

Nella miseria di quello 1% di crescita prevista dal nostro stesso Governo – ora addirittura ridotto allo 0,9 % - c’è la misura esatta della completa mancanza di visione strategica che ne contraddistingue la gestione economica.

Tutto ci sarebbe bisogno, per un mercato interno boccheggiante come il nostro, tranne che ridurre le spese destinate ai consumi; questo sarà invece l’effetto della manovra così com’è stata disegnata dal Governo. In un modo o nell’altro diminuiranno i trasferimenti dello stato verso coloro – pensionati e dipendenti pubblici – che per la modestia dei loro introiti hanno scarse o nulle capacità di risparmio; verso quelle categorie, in altre parole, che reimmettono rapidamente sul mercato – semplicemente perché ne hanno bisogno per arrivare alla fine del mese – ogni euro che è loro versato. Ogni euro in meno dato ad un pensionato, in buona sostanza, si traduce in un euro in meno per commercianti, i produttori, e tutta la filiera della nostra economia.

Per stimolare la ripresa il nostro paese ha un bisogno disperato di incrementare la domanda interna; dare più soldi a quelle categorie è di gran lunga il modo più efficace per farlo. L’Europa ci ha “obbligato” alla manovra correttiva, ma non ci ha certo costretto a farla in questo modo; avrebbe avuto infinitamente più senso una manovra basata sulla tassazione delle rendite e dei patrimoni. Non si tratta di un discorso etico, che pure ci potrebbe benissimo stare, ma eminentemente pragmatico: sottrarre denari alla tesaurizzazione – toccare i capitali che aziende e privati destinano alla rendita – ed utilizzarli per sostenere i consumi delle famiglie è esattamente quello di cui il nostro mercato interno ha bisogno. E dalla salute del nostro mercato interno dipendono, nell’immediato, le nostre reali possibilità di sviluppo.

Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani, fu uno degli slogan con il quale i partiti di governo vinsero le elezioni. Suona bene, ma è una menzogna ed un idiozia. Una menzogna perché, se costretti, è di oggi la notizia della resurrezione dell’ICI, le mani in tasca agli italiani si mettono eccome; un’idiozia perché i denari si possono anche investire per produrre ricchezza, non solo sprecare, ed in questo caso, se gli italiani li tengono nel materasso, farglieli tirar fuori è doveroso, oltre che giusto.

E’ proprio il peso delle promesse elettorali, comunque non mantenute, che impedisce al Governo di prendere le decisioni necessarie per garantire una crescita sostenuta e sostenibile nel tempo all’Italia. Dobbiamo, per restare un paese del primo mondo, migliorare la nostra competitività.

Molto può essere fatto nel settore pubblico, non riducendo gli stipendi già bassi dei lavoratori, ma mettendoli – basterebbero poche norme per farlo – nelle condizioni di dare, tutti, un contributo allo sviluppo del paese. Vi sono decine di migliaia di pubblici dipendenti che non fanno, in buona sostanza, nulla – i sempiterni 30.000 forestali calabresi per fare un esempio –; introdurre la possibilità di trasferirli, all’interno della stessa provincia e a parità di stipendio e mansioni, ad altre amministrazioni dello stato che magari sono a corto di personale, non costerebbe assolutamente nulla se non, per chi avrà il coraggio di farlo, una perdita secca di voti.

Il Paese ha però anche un immediato bisogno d’investimenti: dobbiamo modernizzare le nostre infrastrutture ormai fatiscenti – dalla rete ferroviaria a quella informatica – oltre che per continuare a pagare stipendi e pensioni dignitose, come abbiamo bisogno di spendere di più – non di meno – nella pubblica istruzione per formare i lavoratori che domani dovranno competere, e lo potranno fare solo puntando sulla qualità, sui mercati mondiali.

Abbiamo bisogno, in una parola, di capitali, e questi capitali sono esattamente nelle tasche di alcuni italiani: senza una qualche forma di tassa patrimoniale, comunque si chiami, dal buco in cui ci siamo cacciati non c’è verso d’uscire.

Per ricominciare a crescere, dopo un ventennio di stagnazione, e continuare poi a farlo, chiunque governerà l’Italia dovrà comunque prendere dei provvedimenti che saranno, nell’immediato, impopolari. Non farlo, barcamenarsi come sta facendo l’attuale governo, ci condannerà ad un futuro senza sviluppo.

Un futuro di crescita allo 0,9%, negli anni buoni e fin che dura.

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