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Una Repubblica assistenziale fondata sui pensionamenti

Presentato ieri alla Camera il settimo rapporto di Itinerari previdenziali, il centro studi di welfare diretto da Alberto Brambilla

Da cui si evince ciò che è noto da tempo: l’Italia è una repubblica previdenziale, nel senso di pensionati ed aspiranti tali, fondata sull’assistenza. Ed ancora una volta le due dimensioni risultano pressoché inscindibili, contrariamente ad una certa propaganda sindacale.

Si comincia col fact checking sul solito piagnisteo delle legioni di poveri, misurabile (secondo la vulgata) dall’importo medio degli assegni, che spesso è da fame. A ruota, segue la sdegnata denuncia della diseguaglianza tra pensionati, calcolata proprio partendo dal confronto tra singole erogazioni.

Ma le cose stanno in termini almeno in parte differenti. Le pensioni sotto i mille euro sono 4,9 milioni, il 65% del totale. Ma ogni pensionato è titolare in media di 1,4 prestazioni, ad esempio pensione vera e propria (contribuita) più indennità di accompagnamento o pensione di reversibilità. Questo calcolo riduce il totale di quanti stanno sotto i mille euro a 6,4 milioni su 16 milioni, cioè il 40% del totale. L’importo medio annuo di queste 1,4 prestazioni per pensionato è di oltre 18 mila euro.

Ma non c’è solo questo. C’è, soprattutto, l’esplosione di spesa “pensionistica” assistenziale, cioè erogata a fronte di contribuzione nulla o molto bassa. Cioè a carico della fiscalità generale, il signor Pantalone. Spiega Brambilla:

Su 16 milioni di pensionati circa la metà è totalmente o parzialmente assistita dallo Stato, quindi da tutti noi attraverso le tasse che paghiamo. Circa 800 mila pensionati (il 5,12%) usufruiscono della pensione o assegno sociale. Che cosa vuol dire? Che fino a 66 anni sono stati sconosciuti al fisco nel senso che non hanno mai pagato né contributi sociali e neppure le imposte dirette. Poi si sono palesati richiedendo l’assegno mensile in assenza di redditi.

E ancora:

Ci sono poi altri 2,9 milioni di pensionati (18,2%) che beneficiano dell’integrazione al minimo (513 euro al mese); questi ex lavoratori sono stati parzialmente sconosciuti al fisco in quanto in 67 anni di vita non sono riusciti nemmeno a versare 15/17 anni di contribuzione. Che hanno fatto nei trent’anni precedenti? Anche qui nessuna domanda; Isee e pagamento a pie’ di lista.

Poi c’è un altro 5% di pensionati che ha la maggiorazione sociale di 630 euro al mese per tredici mensilità. E ci sono ancora 160 mila pensioni di guerra. Infine…

Infine ci sono 2.743.988 prestazioni di invalidità civile (17%) di cui 582.730 che hanno solo la pensione di invalidità, 1.764.164 con la sola indennità di accompagnamento e 397.094 percettori di entrambe le prestazioni, che si sommano ai circa 1,158 milioni di invalidi previdenziali Inps (7,2%) e alle 716 mila prestazioni Inail per le inabilità o invalidità da infortuni sul lavoro.

Questi interventi assistenziali determinano l’esiguità del singolo assegno e la vastità della platea di beneficiari, oltre ad una spesa insostenibile, data la situazione del paese. Se si osserva la dinamica delle due tipologie di esborso, quella previdenziale effettiva e quella assistenziale, si scopre che la seconda è caratterizzata da una “inflazione” che ci sta mettendo una pietra al collo. Dal 2008 al 2018, quindi escludendo le ultime mazzate “bengodiste” di Quota 100, reddito di cittadinanza e pensione di cittadinanza, il tasso medio annuo di aumento della spesa assistenziale è del 4,3%.

La somma delle spese di welfare (pensioni, assistenza e sanità) in Italia rappresenta il 54,14% sull’intera spesa pubblica, ed incide per ben il 30% del Pil. Il finanziamento del welfare italiano è costato nel 2018 462,114 miliardi, “pari alla somma di tutti i i contributi sociali e di scopo (quando previsti), l’intero gettito Irpef, Ires, tutta l’Irap e quasi tutta l’Isos, l’imposta sostitutiva sui redditi da capitale”.

In pratica, siamo una specie di paese scandinavo con conti pubblici sudamericani e qualità dei servizi mediorientale. In tutto ciò, vista l’imminente ennesima “riforma” delle pensioni, i sindacati hanno già iniziato le giaculatorie di “occorre più fiscalità generale nella previdenza“, dopo essersi accorti che soluzioni come il ricalcolo interamente contributivo determinerebbero pensioni da fame. L’unica differenza tra la realtà e i Landini è che in Italia l’assistenza fa già la parte del leone nella spesa pubblica sociale, per stock e tasso di crescita, oltre che nell’integrazione previdenziale, ed andrà sempre peggio.

Brambilla è da sempre strenuo sostenitore della filosofia della separazione tra previdenza ed assistenza. Ma, mentre lui lo è per difesa dei pensionati che hanno versato contributi veri, soprattutto quelli “ricchi” che oggi in molti vorrebbero incatramare ed impiumare per “redistribuire” le loro pensioni a favore degli assistiti (ricordate?), i sindacati tendono ad usare la richiesta di separazione tra assistenza e previdenza come cavallo di Troia per mettere più assistenza nella previdenza, cioè destabilizzare ulteriormente il sistema.

Non una differenza di lana caprina, anche se il risultato finale non cambia: il sistema di welfare italiano è ormai incompatibile con le risorse fiscali generate dal paese, e con la sua non-crescita. Eppure, si prosegue a non vedere il baratro e chiedere più pensionamenti e più assistenza. Fatale che, date queste richieste, il futuro preveda più Mucchetti e più Tridico per tutti.

Ci sono soluzioni, almeno per piegare questa traiettoria? Secondo Brambilla, per cominciare, una anagrafe integrata dei percettori di prestazioni previdenziali ed assistenziali, che immagino sarebbe la base per una sorta di “prova dei mezzi” per scremare i destinatari di prestazioni multiple. Prova dei mezzi che ritroviamo anche nella richiesta agli aspiranti percettori di assistenza di spiegare di cosa avrebbero vissuto sino a quel momento.

Un paese con la nostra estensione di sommerso fa questa fine, in loop: più pressione fiscale e contributiva, più sommerso, meno base imponibile, più buchi e più spesa corrente da coprire con aumento di pressione fiscale e contributiva, anche inventandosi le basi imponibili, più sommerso. Su tutto, il collasso demografico che è causa ed effetto della recessione permanente, a sua volta alimentata da politiche economiche e di spesa pubblica di stampo socialista surreale.

Foto: Cespar Diederik/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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