“Un’idea di laicità”: intervista a Salvatore Veca
Salvatore Veca, filosofo e politologo, ha iniziato a ricoprire incarichi accademici negli anni Settanta. La sua riflessione e la sua vasta produzione si sono incentrate in un primo tempo sugli aspetti epistemologici delle teorie marxiste quindi sulla teoria normativa della politica di origine angloamericana, contribuendo alla diffusione del pensiero di John Rawls in Italia.
È stato docente in diversi atenei, in particolare professore di filosofia politica all’Università di Firenze e dal 1994 all’Università di Pavia, dove è stato preside della facoltà di scienze politiche ed è direttore del Centro interdipartimentale di studi e ricerche in filosofia sociale. Attualmente è vicedirettore della Scuola Superiore IUSS, Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. Il suo ultimo libro è Un’idea di laicità. (Su IBS).
Redazione: “L’idea di laicità è vaga”, e occorre “lavorare a una singola interpretazione della nostra idea preziosa ed elusiva”. Lei afferma innanzitutto il legame imprescindibile della laicità con la democrazia, tanto da affermare che “simul stabunt, simul cadent”. È dunque corretto definire paesi non pienamente democratici quelli che si caratterizzano per un pensiero unico sui temi etici?
Veca: Regimi politici che basino le loro norme e le scelte pubbliche su un qualche pensiero unico (religioso, culturale o politico) a proposito di questioni etiche soffrono di un evidente deficit di democrazia in presenza di pluralismo delle credenze del demos o della cittadinanza. Perché non prendono sul serio il fatto del pluralismo e impongono le credenze di qualcuno a proposito di scelte sociali che hanno effetti su chiunque.
Il nostro è un paese dove, stando a organizzazione indipendenti quali Reporter senza frontiere, la libertà di espressione è soggetta a forti limitazioni. L’altro presupposto fondamentale dell’idea avanzato nel libro è la necessità di uno “spazio pubblico” in cui deve potersi esprimere una “libera controversia fra prospettive alternative”. Esiste, in Italia, sulle istanze laiche?
È difficile negare che nel nostro Paese manchi uno spazio pubblico nel senso “sociale” e non “istituzionale”, che cerco di definire nel mio libro. Il problema che mi sta a cuore è quello della asimmetria dei costi di accesso a tale spazio. Qui si pongono serie questioni di oligopolio, quando non di monopolio di ampie regioni del nostro spazio pubblico. E, ancora una volta, oligopolio e monopolio non vanno molto d’accordo con il fatto del pluralismo. Abbiamo bisogno di uno spazio in cui nessuna voce sia esclusa di fatto ex ante. E questo vale naturalmente per le istanze laiche.
Nel libro ricorda Amartya K. Sen, e la sua richiesta di prendere atto delle identità multiple di ogni individuo. Sembrano invece farsi sempre più forti le rivendicazioni di un’identità definita e univoca, sia da parte dei sostenitori delle radici cristiane dell’Europa, sia da quelli del comunitarismo. Lei ha scritto delle “domande di eticità” che mirano a ottenere “comunità morali omogenee, immunizzate rispetto alla diversità”. Il tentativo di creare “comunità etiche” è dunque il maggior pericolo che corre oggi l’idea di laicità?
La costituzione di comunità etiche omogenee e spesso illusorie è uno dei maggiori pericoli nei confronti della laicità delle istituzioni e delle scelte pubbliche. La trappola identitaria e l’invenzione comunitaria sono presenti, come sappiamo, in gran parte dei Paesi europei. E il meccanismo perverso dell’assicurazione nei confronti della diversità (religiosa, culturale, etica, etnica, di genere, e così via) gira alla grande e ha effetti su frazioni di popolazione europea, che mettono sotto pressione la preziosa virtù politica della laicità. E, con essa, la qualità della forma di vita democratica.
Nell’introduzione afferma che il card. Martini le ha insegnato che “dobbiamo imparare a convivere nella diversità”. Come si coniuga con i principi che la Chiesa ritiene “non negoziabili” il “valore non negoziabile” dell’autonomia individuale che, come lei ricorda, Piero Martinetti rifiutò di abbandonare quando gli chiesero di giurare per il fascismo? Qual è il rapporto delle gerarchie ecclesiastiche con il pluralismo di valori, la cui accettazione lei ritiene indispensabile per potersi definire “laici”?
La diversità, su cui più volte ha richiamato l’attenzione Carlo Maria Martini, riguarda esattamente valori non negoziabili che stanno al centro di prospettive alternative e divergenti. Tuttavia, sono convinto che la difesa dell’autonomia individuale sia irrinunciabile, quali che siano le nostre credenze. L’autonomia individuale è connessa alla libertà delle persone di perseguire il proprio progetto di vita. Chi nega ciò, nega la priorità della libertà individuale e, quindi, la laicità che deve contraddistinguere i fondamentali della nostra convivenza democratica. Quanto alle gerarchie ecclesiastiche e al loro rapporto con il pluralismo dei valori, dalle nostre parti abbiamo negli ultimi anni avuto esempi degni di biasimo, cui faccio cenno nel mio libro indicando i casi di collusione fra i potenti sulle anime e i potenti sui corpi delle persone. Questi giochi di potere, il cui effetto è semplicemente la riduzione degli spazi di libertà e di opzione per le persone, sono il promemoria della laicità esposta al rischio di perdita e dissipazione.
Nel libro sostiene che “se l’autorità politica favorisce nelle sue scelte pubbliche una particolare concezione religiosa o etica, finisce inevitabilmente per produrre una divisione, nel migliore dei casi, fra cittadini di serie A e cittadini di serie B. Nel peggiore dei casi, fra cittadini e sudditi”. Come valuta uno stato, come quello italiano, in cui nelle scuole pubbliche è affisso il crocifisso e si impartiscono lezioni di religione cattolica? È in grado di superare il test di laicità che lei propone, consistente nella “neutralità ed equità nei confronti del pluralismo persistente delle credenze”?
La legislazione italiana non supera il mio test di laicità e ottiene un punteggio piuttosto basso. Ma questa non è una buona ragione per non continuare a esercitare la critica e ad avanzare la richiesta che la dignità di ciascuna persona sia presa sul serio non malgrado, ma in virtù delle differenti prospettive di valore in cui essa si identifica. C’è ancora molto da fare, in proposito. Ma sappiamo che ne vale proprio la pena.
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