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Turchia | La democrazia che si suicida

 

Quello che è successo in Turchia causerà gravi problemi in un contesto già molto delicato dal punto di vista geopolitico e soprattutto segnerà in maniera drammatica la vita di milioni di donne e di uomini che vivono in quel grande paese, ma pone anche tutti noi di fronte a un interrogativo: cosa succede quando una democrazia decide consapevolmente di suicidarsi?

di Luca Billi-Ancora Fischia il Vento

 
Chi è andato a votare – e anche chi non è andato, lasciando che gli altri decidessero per lui – sapeva benissimo che quello di domenica non sarebbe stato un voto come gli altri. Non credo ci fossero dubbi e neppure troppi infingimenti. Ovviamente Erdogan non ammetterà mai che con la sua vittoria al referendum costituzionale quel regime è diventato una dittatura, ma certamente ha condotto tutta la campagna elettorale chiedendo per sé poteri che nessuno ha avuto prima di lui.
 
Non ha finto che con questo voto non sarebbe cambiato nulla, ma ha promesso a chi avrebbe votato per la riforma – e minacciato chi avrebbe votato contro – che l’assetto istituzionale della Turchia sarebbe profondamente cambiato. Ora, al netto dei brogli – che probabilmente ci sono stati – il sì, seppur di misura, ha vinto e in una democrazia vince chi prende anche un solo voto in più. Non siamo ipocriti: se i no avessero vinto, anche con un margine così ridotto, nessuno di noi avrebbe avuto da dire sulla legittimità del voto popolare e su quella risicata maggioranza. Le regole sono queste e dobbiamo accettarle, sia quando vinciamo che quando perdiamo.
 
In qualche modo la forza della democrazia sta anche in questo: ossia nel fatto che i cittadini possono decidere, a maggioranza, di rinunciarci, come è avvenuto appunto in Turchia. E come potrebbe succedere anche in Italia o in qualche altro paese europeo, se le cose continueranno ad andare così. E per questo dobbiamo capire cosa è successo, per impedire che accada di nuovo. Il voto dei cittadini turchi, di tutti quei cittadini che hanno votato per rendere più debole la loro democrazia, deve farci riflettere, perché evidentemente per quelle persone la democrazia come noi la conosciamo e che noi celebriamo nei nostri discorsi, sempre più inutilmente retorici, ha sempre meno significato, tanto da essere qualcosa di cui poter fare a meno. Immagino che di fronte alle difficoltà della propri vita quotidiana, alla confusione di quello che succede in Turchia e nel mondo, alle minacce che ogni persona sente gravare anche su di sé in questa strana condizione, in cui c’è una guerra mondiale che pure nessuno ha dichiarato e in cui le uniche vittime sono i civili, molti cittadini abbiano pensato che quelle istituzioni – le nostre istituzioni – non siano più in grado di risolvere questi problemi così complessi, hanno pensato che serva un sistema più semplice, meno complicato, con meno mediazioni, un sistema in cui qualcuno, qualcun altro, si prenda la responsabilità di decidere, per tutti.
 
Noi sappiamo che questa è la soluzione sbagliata, ma se tante persone, se milioni di persone – e non solo in Turchia – pensano che questa sia la soluzione, non possiamo fare finta di niente, non possiamo dire che sbagliano loro e che noi abbiano ragione. Dobbiamo capire perché, con il paradosso di usare gli stessi strumenti della democrazia, tante persone sono disposte a rinunciare a essa. E per spiegare questi fenomeni non bastano le aspirazioni di chi vuole comandare senza essere costretto da regole o il periodico riaffermarsi della richiesta di un “uomo forte”, la responsabilità è anche nostra che non abbiamo saputo coltivare la democrazia, non abbiamo saputo farla crescere, farla diventare qualcosa di più.
 
Siamo rimasti fermi mentre il capitalismo, diventato sempre più globale e globalizzato, ha minato nel profondo la legittimità della democrazia. Il tema allora è cercare di capire come è possibile espandere la democrazia oltre le sue forme attuali, basate su un sistema di stati nazionali in cui ci sono sistemi multipartitici e una serie di regole che comprendono anche la possibilità di essere cancellate.
 
Forse è venuto il momento di pensare a qualcosa di molto diverso, perché il limite delle soluzioni proposte dalle più importanti forze politiche della sinistra europea – delle nostre proposte anche negli anni in cui ancora qualcosa dicevamo – è quello di stare completamente all’interno del “recinto” del pensiero liberaldemocratico. Anche se ci ponessimo l’obiettivo di estendere il controllo democratico sull’economia globale – e ormai i nostri governanti, anche quando si definiscono di sinistra, non lo vogliono fare davvero – come potrebbero i governi fermare gli speculatori che si muovono su un mercato internazionale, ormai fuori da ogni controllo legislativo nazionale?
 
Ancora dopo la fine della seconda guerra mondiale nel programma del Partito Socialista francese c’era la nazionalizzazione delle banche, delle compagnie assicurative e delle industrie strategiche, come quella dell’energia elettrica; il Labour party solo pochi anni fa ha tolto dal proprio statuto la clausola IV che prevedeva “la proprietà comune dei mezzi di produzione”. Ora un governo socialista, anche volendolo, cosa potrebbe nazionalizzare? La finanza ha un’altra dimensione. Anche per questo, in sostanza nessuno mette più in discussione il quadro istituzionale dello stato democratico borghese.
 
Bisogna per questo tornare a Marx: “L’emancipazione politica è certamente un grande passo in avanti, non è, bensì, la forma ultima dell’emancipazione umana in generale, ma è l’ultima forma dell’emancipazione umana entro l’ordine mondiale attuale.”
In sostanza il tema della libertà non può essere riferito esclusivamente alla sfera politica, ossia a principi fondamentali, come il rispetto dei diritti umani, le libere elezioni, l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa; questioni comunque fondamentali per gran parte delle donne e degli uomini del pianeta, che non hanno raggiunto neppure questi obiettivi, ma non sufficienti, perché il rischio che si torni consapevolmente indietro, come è avvenuto in Turchia, è sempre più evidente.
 
Per queste ragioni Marx dice che la vera libertà sta nel cambiamento radicale dei rapporti sociali di produzione. Proviamo allora a pensare a una democrazia diversa, in cui le trasformazioni necessarie per promuovere i miglioramenti della condizione delle donne e degli uomini non passino soltanto attraverso le riforme politiche, ma coinvolgano anche gli stessi rapporti economici. Le persone che si rendono conto che solo un 1% prende le decisioni che interessano direttamente anche il restante 99%, ormai non si fidano più. E non li convinceremo dicendo che aumentando quella ridicola percentuale si possano risolvere i loro problemi. Anzi rischiamo che preferiscano rinunciare anche a quel po’ di potere che hanno e decidano di cederlo a chi promette loro una soluzione più semplice.
Per questo c’è bisogno di rivoluzione, c’è bisogno di stravolgere i rapporti di forza economici, c’è bisogno di dire che la democrazia sarà effettiva solo in un sistema socialista.
 
se avete tempo e voglia, qui trovate le cose che scrivo
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Commenti all'articolo

  • Di GeriSteve (---.---.---.35) 23 aprile 2017 13:07

    Condivido il fatto che un mondo globalizzato riduce fortemente le possibilità di controllo dell’economia da parte di un governo, che sia democratico o no, ma non vedo perchè mai parlare di "suicidio della democrazia" e del "bisogno di rivoluzione".

    Partiamo dalla affermazione: "Le regole dobbiamo accettarle, sia quando vinciamo che quando perdiamo".

    A me risulta che in quella votazione ci fossero due milioni e mezzo di schede contraffatte, perchè non timbrate dagli scrutatori, come invece le regole impongono e che un tribunale abbia sentenziato la loro validità. Se ciò è vero, dobbiamo dedurne che non c’è stata nessuna vittoria del SI’ alla modifica costituzionale ma un’enorme broglio elettorale. La democrazia non si è affatto suicidata ma è stata assassinata dai brogli del governo.

    Resta il fatto che non pochi turchi abbiano votato per il SI e questo si spiega bene con l’arretratezza culturale delle campagne. La democrazia non fa miracoli: se la gente non è in grado di capire i dittatori possono arrivare al potere "democraticamente".

    C’è però un fatto sconcertante: il SI ha prevalso abbondantemente anche fra i turchi emigrati, che non dovrebbero essere analfabeti e ignorare il mondo.

    Io credo poco allo "scontro di civiltà", ma in questo caso sospetto che lì stia la spiegazione. Ai turchi emigrati non passa per la testa di tornare in Turchia sotto Erdogan, ma probabilmente con quel voto hanno ritenuto di affermare la loro identità turca e islamica in contrasto con una società in cui non si riconoscono e in cui non si sono affatto integrati.

    Aver paura degli immigrati che rifiutano di integrarsi, secondo me, è saggezza e non xenofobia razzista o paranoica paura dell’altro.

    Ignorare il problema e sostenere che c’è posto per tutti è, quello sì, un suicidio della democrazia.

    GeriSteve

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