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Tra il Campiello e lo Strega, oltre i premi: le parole di Cesarina Vighy

Mia grande amica, mia unica amica è La Gatta: tonda, timida tigre parlante mi ama di più da quando sono malata. Non, come gli umani, "nonostante" sia malata ma "perché" sono malata e sto sempre in casa e molto a letto.
(pag.16) 

‘L’ultima estate’ di Cesarina Vighy ha vinto il premio Campiello Opera prima 2009. Questa la dichiarazione dell’autrice in proposito:

Accolgo con vera gioia e una punta di commozione il Premio Campiello Opera Prima e ringrazio i giurati che me l’hanno assegnato all’unanimità. Per me, poi, tale gioia è triplicata perché: da vera madre, Venezia ha accolto e perdonato la sua figliola fuggitasene lontano nell’adolescenza, quando l’irrequietezza e i primi errori vengono imputati ai luoghi e non a sé stessi. Anche altrove, però, il figliol prodigo tentato di tornare mantiene la fierezza della sua origine se, si diceva un tempo, come gli inglesi si svegliano ogni mattina ringraziando dio di essere inglesi, così fanno i veneziani per il loro essere veneziani. 
Ho modo ora, se pure troppo tardivamente, di dare una soddisfazione e una ricompensa a mio padre e a mia madre, che sempre hanno sperato che io smentissi quel detto: "Nessuno è profeta in patria".

Il Premio Campiello Opera Prima assegnato a un’esordiente settantenne mi fa sorridere di tenerezza, mi ringiovanisce e insieme mi appare come una bella vittoria sull’età e la malattia. Ringiovanendo, mi sento quindi autorizzata e stimolata a continuare.
 
E’ un romanzo il mio? O un diario? O, come si dice ora, una docu-fiction? Preferisco definirlo il "ripasso" di una vita, fatto prima degli esami finali, magari sul Bignami che fa risaltare i fatti più importanti mettendoli in grassetto e così distinguendoli, se pur superficialmente e grossolanamente, da tutto quell’universo che gira loro intorno e di cui i manuali più seri cercano di dar conto. Anche in questo ripasso, spesso doloroso, la mia "venezianitudine" salta fuori, sotto forma di ironia / autoironia e di "cattiveria" un po’ maligna (scherzo sui sani, sui malati, sui medici, sulla malattia), ironia e cattiveria che sono nella tradizione non solo letteraria della nostra città ma che piacciono un po’ meno ai "foresti", forse invidiosi.

Pubblicato da Fazi, quasi un mese fa, 26 aprile 2009, attualmente è tra i dodici finalisti per il premio Strega, il cui verdetto dovrebbe essere reso noto l’11 Giugno prossimo (una delle numerose fonti qui: http://guide.supereva.it/letteraturaitaliana/interventi/2009/05/premio-strega-2009-ecco-i-finalisti).

E’ stato già scritto nella quarta di copertina (da Marino Sinibaldi) che “Con una lingua nitida, a tratti feroce, mai retorica, attraversata da una vena di sarcasmo che non concede nulla alla pietas, l’autrice affronta il più evitato degli argomenti: la sofferenza. Mai, lungo queste pagine, si può dimenticare che è malata, gravemente. Però basta uno spiraglio della finestra in cucina a far entrare un platano o un merlo. C’è una gatta fedele, indulgente, comprensiva. C’è una esistenza verso cui – Zeta non lo direbbe mai e certamente si rifiuta perfino di pensarlo – si può nutrire un orgoglio felice. Segnata com’era, ora finalmente appare bella. E piena di sogni, ricordi, fantasmi, di intelligenza. Non degenera: può sfidare il peso dei rimorsi del passato e l’orrore dei sintomi di oggi, ironicamente e fieramente: «Dicono che si nasca incendiari e si muoia pompieri. A me è successo il contrario: brucerei tutto, adesso». Lo fa in questo libro singolare: piccolo auto da fé e magnifico inno alla vita che era ed è”.

Il tema ‘malattia’ intrecciato con ‘sofferenza’ e pungente ironia. Questo mi ha attirato.

Della malattia, come macro categoria vastissima si è scritto moltissimo. Per non parlare della sofferenza (del malato in questione o dal punto di vista dei ‘cari’ vicini o lontani). E sono spesso resoconti, diari o meno, ma che comunque ripercorrono le ‘tappe’, la progressione, i traguardi quanto le eventuali ricadute. Poi la morte. Tema, invece, tutt’altro che abbracciato dalla Letteratura ‘conosciuta’ (pubblicata) ma comunque se legato all’ammalarsi, comparsa più accettata. Nulla di nuovo insomma, verrebbe da commentare ‘a caldo’.

Invece no.

Ed è altrettanto singolare, secondo me, che di Cesarina Vighy si trovi poco on line, le informazioni sono striminzite, quasi pudiche mi verrebbe da commentare. Perché Cesarina Vighy, originaria di Venezia, attualmente vive a Roma (come recita la breve biografia diffusa da Fazi), non più giovanissima (l’età non è un segreto, nella dichiarazione di cui sopra è la stessa autrice a sorriderci) con ‘L’ultima estate’ pubblica il suo primo romanzo. Che è la storia di Zeta, voce narrante che solo nel primo e nell’ultimo capitolo si alterna con un’altra voce, scritta in corsivo in una sorta di ‘inversione di ruoli’, la cui giusta collocazione nella narrazione si rintraccia esattamente nelle ultime due parole del romanzo.
Zeta dunque, che racconta e si racconta. Una vita vissuta. Partendo da lontano, dai genitori, il passato che è anche storia, in una sequenza di incastri fluidi. Poi la fase più delicata, gli ultimi capitoli interamente dedicati a preparare il lettore per quella che è l’attuale (in realtà ormai evidente) condizione di malata terminale, colpita dalla Sla che attende semplicemente lo scorrere delle giornate. Ma non si arrende. Resta curiosa, vigile e lucida.

E’ una storia, una delle infinite storie tra fatti, amori, pressioni, vittorie e sconfitte, cadute e riprese; costellate dall’arrivo di un compagno inatteso, da tutti temuto: la malattia appunto. 

I fatti propri fanno sbiadire anche i più importanti eventi pubblici, relegandoli sullo sfondo a far da quinte. […] E’ il momento in cui scopri che il tuo cuore è diviso in tanti pezzi o, meglio, è distratto, incapace di seguire un solo sentimento senza esitazioni…
(pag.124)

Miracolo? Ai miracoli non credo. Piuttosto, al di là della stima, l’affetto, l’amore, si crea spesso un legame inestricabile, una simbiosi, tra oscuri bisogni che cercano, e spesso trovano, un sollievo, una comprensione in quelli dell’altro. Ora so cosa cercavo io. Un alibi. Un alibi che giustificasse il mio scarso successo, il mio negarmi alla creatività, alle buone frequentazioni, alle amicizie, alle novità. […] Eppure eccoci qua: io malatissima, lui, l’angelo incazzoso, solerte come una madre che indovina i desideri del suo bambino ancora prima di sentirglieli esprimere. Eccoci qua dopo anni di quiete che si potrebbero chiamare anni felici se solo sapessimo, mentre la si vive, che quella è la felicità.
(pag. 120-121) 

Ma Cesarina Vighy, a mio avviso, realizza con questo romanzo qualcosa di decisamente inusuale, una frattura importante tra quello che è l’immaginario a proposito della pietà, della pena per il malato, per la vita che sfiorisce troppo rapidamente, per quello che poteva essere e mai sarà, per la ‘condanna’ che sposta affettività, umori e programmi; tutto questo c’è intendiamoci ma mai come ci si aspetta. Zeta narra senza fronzoli, ridicolizzando lamenti, rabbia cieca, moralismi e cliché. Zeta è ironica in un modo pungente, sprezzante verso se stessa, la malattia, il mondo tutto. E’ anche spietata, osserva i ricordi, il passato, senza concedere quella stessa pietas che non cerca, anzi, evita rigorosamente a se stessa chiudendosi in casa, fuggendo da ogni contatto ‘umano diretto’, tra i suoi amati gatti e gli oggetti familiari, rassicuranti.

Se è una nuova legge del mercato, io non lo so e non mi interessano francamente le dinamiche ’da concorsi’, resta il fatto che l’approccio, la modalità scelta dall’autrice per addentrarsi in meandri bui ridendo sguaiatamente di sé, di tutto e tutti, sfaldando certezze post romantiche e rinnegando la consolazione fine a se stessa, quel certo modo di parlare e considerare i malati; tutto questo graffia. Spiazza. Confonde anche, almeno all’inizio. I sentimenti, però, ci sono.

Galleggiano, si nascondono quando sono attesi per poi sbucare all’improvviso. Ma sono talmente fondi, scarnificati e onesti che non possono lasciare indifferenti.

Non era un lavoro difficile perché il resto dovevo farlo io; la ripulitura finale i medici di una clinica, come si dice, compiacente. Mi avvisò lealmente che durante la notte avrei sofferto (“come un parto”) e mi raccomandò di camminare ma senza perdermi la cannuccia. A un certo punto, sarebbe uscito.
[…]
Come diceva Charlot, la vita vista in primo piano è una tragedia, in campo lungo una commedia. Pallida, seduta ingloriosamente sul bidè, non sembravo certo una regima ma quando, improvviso, sgusciò fuori dal mio corpo una specie di bambolotto piccolissimo, nerastro, imbrattato di sangue, sentii per la prima volta la solennità della morte.
(pag. 81)

Capitolo a mio avviso quasi ‘a parte’ è uno degli ultimi: I consigli di Madame de La Palisse. Dopo circa centosettanta pagine di ricordi, sprezzanti analisi, leggerezza e sofferenza, Cesarina Vighy cede alla condivisione più faticosa, lascia tracce concrete attraverso la voce di Zeta. “…sperando di fare cosa utile, così parlerò ai principianti, ai catecumeni di questa mia e loro malattia, fornendo alcuni semplici consigli desunti dall’esperienza” (pag.174). Naturalmente sono suggerimenti non convenzionali, che non perdono lo smalto del resto del romanzo, pungono e strappano a dovere. Non li svelerò, questi consigli semplici, mi accontento di commentare che è un capitolo notevole, non stupisce con effetti speciali 3D ma arriva dritto al ‘cuore’ o ovunque sia l’affettività del lettore.

 “Talvolta mi vengono delle idee che non condivido”, dice il filosofo ridens Woody Allen. Anche a me.

Ho steso tra i primi, coscienziosamente, sperando che un giorno potesse avere valore, un testamento biologico fai-da-te in cui credevo che mi risparmiasse buchi, cannule e sondini, nella certezza che la natura, nostra madre, sarebbe stata pietosa.

Solo dopo ho conosciuto la malattia, la sua ingiustizia e casualità e ho scoperto che siamo infinitamente adattabili, che cambiamo idee e ideali seguendo peggioramenti…
(pag.181) 

Ci sono frequenti contatti tra Zeta-narratrice e il lettore, contatti indiretti ovviamente eppure improvvisi, inaspettati e tutto sommato divertenti. Probabilmente sdrammatizzano o meglio contribuiscono alla frattura da ‘oddio sta morendo però’. 

Solo un po’ di pazienza, una piccola pausa: fate ricreazione, intanto.
(pag.119)

 Ma, come si diceva nei romanzi un tempo rispettabili, facciamo un passo indietro.
(pag.44) 

Infine un’annotazione personale di stupore data la materia trattata: la parola tanto temuta, quella che in molti neanche pronunciano per sbaglio – morte – non come sottotitolo scritto talmente in piccolo che neanche una lente potrebbe renderlo reggibile bensì come temporaneo protagonista, lei insomma. Si presenta a pagina 186, a romanzo in sfilacciamento fisiologico. Il lettore sa, che lì si arriverà, succede sempre, sa che il mostro aleggia, può apparire in qualsiasi momento, può colpire alle spalle e distruggere anche la risata più fragorosa e genuina. Eppure la narrazione resta a galla. Non cede fino alla 186, a quattro pagine di distanza dalla fine del romanzo, dal sipario che cala attraversato da merli di fine estate.

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