Terremoto | I container collettivi "sono, oggettivamente, un errore" (VIDEO)
I container collettivi sono la sistemazione decisa dal Governo per i terremotati che non hanno voluto spostarsi sulla costa o affittare una nuova abitazione. Strutture dormitorio che possono ospitare circa 60 persone, composte da camere fino a quattro posti letto, bagno in comune, un refettorio comune e sale in comune.
I container rappresentano una fase intermedia tra la prima emergenza affrontata nelle tendopoli e i villaggi di casette (Sae – Soluzioni abitative emergenziali) previsti per la primavera prossima. “Molte comunità stanno rifiutando questo modello di container – afferma Marco Fars delle Brigate di Solidarietà Attiva – che rappresentano oggettivamente un errore dovuto alla frettolosità con cui il Governo ha cercato di rimediare al buco che non aveva previsto”. Infatti, le prime soluzioni prevedevano, per i terremotati, solo la possibilità di spostarsi in strutture alberghiere sulla costa o fittare una nuova abitazione usufruendo del Contributo di Autonoma Sistemazione.
Molti terremotati, però, avevano manifestato la volontà di non abbandonare il proprio comune, per continuare a gestire la propria attività. Ricordiamo che l’economia all’interno del cratere del terremoto è rappresentata principalmente da piccoli allevatori o agricoltori, che andando via e tornando in primavera non troverebbero più niente. La risposta a questa esigenza sono stati, appunto i container collettivi.
Questa soluzione in realtà non convince particolarmente la popolazione, che avrebbe preferito container singoli per famiglia, capaci di offrire una maggiore privacy e soprattutto sistemabili direttamente dove necessario, senza costringere nessuno a dover comunque far riferimento al campo, ovunque sia ubicato.
“Come è possibile che l’emergenza terremoto del 1997 sia stata gestita con dei semplici container familiari, quindi container che garantivano un minimo di privacy con bagno interno e cucina interna che davano la possibilità di vivere dignitosamente – racconta Andrea Ferroni delle BSA – La soluzione proposta nel 2016 è un ostello in comune con degli spazi in comune, che vanno a limitare la privacy e quella intimità che serve a superare momenti di emergenza come questo”.
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