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Stage: se lo dice il Financial Times

Questa mattina c’è stata una bella sorpresa: nientemeno che il Financial Times, per mano di Michael Skapinker, parla della necessità di cambiare radicalmente l’istituzione dello stage.

Diciamo subito che l’articolo parla della realtà inglese, che rispetto a quella italiana è per molti aspetti migliore, anche se sta peggiorando. Qualcuno dice che l’Italia è una Repubblica fondata sullo stage, e forse non sbaglia. Skapinker parla di "some companies" che usano stagisti per rimpiazzare lavoratori. In Italia "some companies" non lo fanno, le stesse che magari, mosse a compassione, elargiscono un super-rimborso spese dai 600 agli 800 euro. Sono le multinazionali e le aziende molto grandi. Di solito da noi ci si ferma a un rimborso-vergogna tramite buoni pasto (valore dai 100 ai 200 euro mensili), che non compensa le ore d’ufficio imposte, o addirittura non si offre alcun rimborso spese.

Un altro problema italiano riguarda le mansioni.

Gli stagisti sono solitamente dei laureati che scelgono di fare esperienza lavorativa e ovviare in questo modo alle mancanze di un sistema universitario che fa del nozionismo la propria bussola, senza preoccuparsi di insegnare davvero una professione agli studenti.

Molto spesso i neolaureati vengono usati per lavori di bassissimo profilo (le classiche fotocopie, andare in posta, sbrigare commissioni varie) e per lavori d’ufficio da grado zero dell’emozione (inserire fatture, fare inutili ricerche d’archivio e similari). Pochissimi hanno la voglia o il tempo di formare una persona da assumere (e quindi pagare) a fine stage, meglio non fargli fare nulla di serio e spremerlo facendo cose di bassissimo livello e che non ti fanno acquisire professionalità e a fine stage tanti saluti e avanti il prossimo.

E’ inutile sottolineare come questo sia uno svantaggio per l’azienda, che perde occasioni per sfruttare tutto il potenziale di un giovane magari motivato e fresco di conoscenze e nell’uso delle nuove tecnologie, e ovviamente per il giovane che non guadagna né in esperienza né in termini economici. Quindi a chi giova? A chi vuole mantenere lo status quo.

Ai dipendenti storici che non hanno alcuna intenzione di vedersi scippati del proprio lavoro da gente più giovane.

Agli amministratori delegati che possono farsi belli di fronte al mercato con robusti tagli del personale e prepensionamenti, sicuri che possono rimpiazzare tutti con infornate di stagisti a costo zero (o quasi).

Qualcuno dirà: e il governo? 

Qualcuno crede che davvero il governo (possiamo anche dire qualsiasi governo) abbia a cuore le speranze di qualche milione di giovani laureati, con master, Ph.D., e tanta voglia di lavorare, di formarsi una famiglia, di smetterla di aspettare bonifici da famiglie sempre più stanche di sostenere i propri figli fino a 30-35 anni?

Se così fosse ci sarebbero stati, ora o nel passato, degli interventi mirati a questa larga categoria di persone. Invece nulla, solo provvedimenti per la cassa integrazione a dipendenti a tempo indeterminato, qualcosina ai contrattisti a tempo determinato e nulla a tutto il resto.

Basterebbe un nulla per dimostrare sensibilità al tema: l’obbligo di remunerare lo stagista con almeno 400/500 euro, pena multe salatissime per le aziende che non si adeguano. Un primo passo verso la modifica di un istituto, quello dello stage, che andrebbe profondamente rivisto per evitare gli abusi sotto gli occhi di tutti.

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