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Settant’anni di Aied

Dal 1953 l’Aied promuove l’autodeterminazione delle donne e affronta con approccio laico questioni legate alla salute sessuale e riproduttiva. Loris Tissino ripercorre la storia dell’associazione e intervista il presidente nazionale Mario Puiatti in questo articolo in anteprima del numero 5/23 di Nessun Dogma

L’Italia di settant’anni fa è difficile da immaginare oggi, se si pensa al fatto che l’aborto e il divorzio erano vietati, la violenza sessuale era considerata un reato contro la morale e non contro la persona, esisteva la potestà del marito sulla moglie e non era possibile neanche solo parlare di metodi contraccettivi, figuriamoci tentare di mettere le persone nelle condizioni di utilizzarli.

È in questo contesto legale e socio-culturale che, nel 1953, fu fondata l’Aied, Associazione italiana per l’educazione demografica, chiamata così, con un «nome assurdo» per esigenze di autotutela dei promotori, in quanto «non si poteva dire “associazione per il controllo delle nascite” perché se lo avessimo fatto saremmo andati tutti in galera», come ricordava Adriano Buzzati-Traverso, uno dei fondatori [1]. 

Il nostro Paese, nel primissimo dopoguerra, era in una situazione di pesante arretratezza sul versante dei diritti civili. Gli articoli 553, 554 e 555 del Codice Rocco prevedevano, come reato contro l’integrità e la sanità della stirpe, il controllo delle nascite; e l’articolo 112 del Testo unico della legge di pubblica sicurezza vietava la fabbricazione, l’importazione, l’acquisto, la distribuzione e la detenzione di scritti, disegni e immagini di oggetti «che divulgano anche in modo indiretto o simulato, o sotto pretesto terapeutico o scientifico, i mezzi rivolti a impedire la procreazione o a procurare l’aborto, o che illustrino l’impiego dei mezzi stessi, o che forniscano comunque indicazioni sul modo di procurarseli o di servirsene».

La chiesa cattolica, gran parte dei partiti politici e, in generale, la “morale pubblica” condannavano qualunque discorso sul controllo della fertilità e sulla pianificazione delle nascite, e ciò si rifletteva anche nella formazione dei medici, la cui preparazione universitaria non prevedeva l’insegnamento dei principi e dei metodi della contraccezione.

Tra le voci fuori dal coro, quelle dello scrittore Rinaldo De Benedetti, che prima sul Corriere della Sera e poi su Il Mondo scrisse denunciando la crescita incontrollata della popolazione e promuovendo la costituzione di un’associazione «sull’esempio di floridissime istituzioni esistenti in altri Paesi, le quali operano con successo a vantaggio della prosperità della compagine familiare», diventando così un punto di riferimento per le persone sensibili al problema.

Alcune delle quali (il già citato Adriano Buzzati-Traverso, Dino Origlia, Guido Tassinari, Giulia Filippetti, Mario Dondina, Ada Baisini Ferrieri, Annibale Beretta), il 10 ottobre 1953, fondarono a Milano l’Aied, con il proposito, «mediante un’adeguata educazione e assistenza demografica, di ridurre le nascite di illegittimi, gli infanticidi, gli aborti procurati, i suicidi di ragazze-madri, la prole ereditariamente tarata» e l’intenzione di lavorare per raggiungere questi obiettivi, in contrasto con la politica dirigista del fascismo, non con l’affidamento all’intervento coercitivo dello Stato ma grazie alla libera scelta dei cittadini.

L’associazione ebbe subito l’adesione e il supporto di figure illustri, quali Adriano Olivetti, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, Ugo La Malfa, Dino Buzzati, Pietro Calamandrei e molte altre che sarebbe lungo elencare. I temi della libertà individuale si saldavano alle questioni sociali: il controllo delle nascite, attraverso l’azione di educazione alla contraccezione, toccava, allora come oggi, sia i temi della libertà sessuale per l’individuo e della qualità dei rapporti interpersonali sia quelli della tutela dell’ambiente e della lotta alla miseria.

La contraccezione era vista anche come un mezzo per affermare la dignità delle donne e il loro diritto alla salute in un’epoca nella quale le ripetute gravidanze e gli aborti procurati con tecniche primitive li negavano tragicamente.

Tra le prime attività svolte vi fu la costituzione di una rete di medici disponibili a collaborare, che l’associazione provvide a formare con specialisti di organizzazioni internazionali. A partire dal 1955 furono aperti centri di consulenza in diverse città italiane e dal 1959 si avviarono interventi di informazione e assistenza contraccettiva alle donne degli strati più poveri della popolazione per prevenire l’aborto, considerato l’unico metodo efficace per non avere più figli.

Queste attività portarono a diverse denunce a carico dei dirigenti dell’associazione in base all’articolo 553, ancora in vigore nonostante i diversi tentativi di abrogazione per via parlamentare. Nel 1971 arrivò una storica sentenza della Corte costituzionale, che dichiarò quell’articolo incostituzionale, aprendo di fatto la strada alla creazione di consultori in tutte le regioni italiane, nonostante qualche difficoltà residua, come il perdurante divieto di vendita nelle farmacie dei contraccettivi, in quanto il ministero della sanità continuava ad applicare alcune norme del “Regolamento per la registrazione dei farmaci” (risalente al 1927), che non consentiva «la registrazione di specialità medicinali e di presidi medico-chirurgici aventi indicazioni anticoncezionali» (per ovviare, i contraccettivi venivano ancora registrati sotto “mentite spoglie”: la pillola come regolatore dei cicli mestruali, mentre gli spermicidi come antisettici per l’igiene intima della donna) [2].

Nel 1975 la legge 405 istituì i consultori pubblici, ma l’Aied continuò (e continua) a giocare un ruolo importante nell’affermazione del diritto all’autodeterminazione delle donne in campo sessuale e su aspetti quali la sterilizzazione volontaria, la procreazione medicalmente assistita, le campagne pubblicitarie offensive dell’immagine della donna, le mutilazioni genitali femminili, il turismo sessuale, la tutela dei minori dal mercato del sesso, le malattie a trasmissione sessuale, la pillola del giorno dopo.

Incontro Mario Puiatti, presidente nazionale dell’Aied, mentre è impegnato a organizzare un evento per la celebrazione degli imminenti settant’anni di vita dell’associazione.

Nel 2013, in occasione della presentazione del libro di Gianfranco Porta Amore e libertà, in cui si raccontavano i primi sessant’anni dell’Aied, dicesti che quanto è stato costruito con anni di battaglie e iniziative non è scontato che ci sia in futuro, perché «un giorno sì e un giorno no c’è qualcuno che cerca di farci tornare indietro, che cerca di imporci quello che lui pensa, che vuole far diventare il peccato un reato: siccome uno in base alle sue idee e convinzioni ritiene che un comportamento sia peccaminoso e sbagliato vuole fare una legge che lo vieti. Questa è la logica della sharia, che spero che il nostro Paese non segua». Come giudichi le cose oggi?

La situazione, da un punto di vista pratico e giuridico, è rimasta immutata: i consultori sono bistrattati come allora, nelle scuole non si fa nulla, la legge 194 c’è ancora e funziona (non benissimo) come dieci anni fa, eccetera. Poi ci sono molte polemiche, molte dichiarazioni, che però sono spesso provocate da questioni inconsistenti e non portano a nessuna conseguenza nella realtà.

Che cosa pensi della questione natalità?

Il senso di allarme causato dal calo delle nascite assume forme diverse: dalla paura identitaria alla più profonda riflessione sulle conseguenze che l’invecchiamento della popolazione potrà avere nelle dimensioni economiche, sociali e politiche. Ma il dibattito in Italia sembra non riuscire a superare il livello teorico e propagandistico, con la rinuncia ad approfondire le ragioni, i sentimenti, i desideri delle coppie italiane e le loro speranze per il futuro.

Sei anni fa l’Aied ha fatto una ricerca sulla “questione demografica in Italia” (i cui risultati furono presentati in un convegno a Roma il 16 maggio 2018). Dalla ricerca emerse che il 63% delle donne aveva avuto il numero di figli che desiderava e il 34% ne avrebbe voluti di più. Tra queste ultime, il motivo della rinuncia risultava legato ad aspetti economici e lavorativi nel 36% dei casi e alla mancanza di servizi e/o di aiuti familiari nel 12% dei casi.

Che cosa andrebbe fatto?

Da sempre sosteniamo tre punti fondamentali. Primo: non è obbligatorio fare figli, ogni donna deve essere e sentirsi libera di decidere in merito (il nostro vecchio slogan era «figli: quanti ne vuoi, quando li vuoi»). Secondo: chi vuole avere figli deve avere il diritto (e l’aiuto, se necessario) di farli. Terzo: una società civile deve mettere le donne che vogliono avere figli nelle condizioni per poterli gestire anche lavorando, con un’adeguata rete di servizi, a partire dagli asili nido (i posti disponibili negli asili nido, tra pubblici e privati, sono spesso nettamente insufficienti rispetto alle richieste).

Non si tratta di elargire sussidi, ma di far sì che le donne percepiscano di essere protette da una rete che consente loro di essere madri con la sicurezza di essere garantite in questo loro ruolo anche nel caso di perdita del lavoro, separazione dal partner, eccetera. Non è comunque che dall’oggi al domani, anche mettendo in campo misure auspicabili di questo tipo, si risolva il problema (ammesso e non concesso che sia un problema) del buco demografico, causato dal calo delle nascite di vent’anni fa.

Se si allarga lo sguardo oltre i confini, si osserva che il calo demografico c’è in realtà solo in Europa…

Già. In Europa c’è un calo demografico, ma questo non dovrebbe essere considerato un dramma, visto che non si può crescere all’infinito in un pianeta con risorse limitate. Consideriamo poi che in altri continenti la situazione è inversa: pensa solo alla Nigeria con i suoi quasi 220 milioni di abitanti, un’età media di 18,1 anni e la prospettiva di arrivare a oltre 400 milioni nel 2050. Sono fenomeni sovranazionali che dovrebbero essere gestiti con razionalità e buon senso, non con slogan.

A proposito di buon senso: che cosa andrebbe fatto nelle scuole?

Ai bambini dovrebbe essere insegnato, fin da piccoli, che bisogna rispettare le diversità, che non tutte le persone sono uguali, che concetti come quello di famiglia, di religione, di cultura dovrebbero essere declinati al plurale: esistono le famiglie, le religioni, le culture; non c’è nessuno da convertire (come facevano i missionari quando andavano a convertire gli infedeli per “salvarli”); nessuno ha la verità, la religione giusta, la famiglia giusta. Bisogna fare diventare la violenza un tabù, così come lo è l’incesto, e per farlo è necessario partire dai bambini.

È un compito che spetta alle scuole, non alle famiglie, sia perché non tutte le famiglie hanno gli strumenti culturali per farlo, sia perché è difficile che gli adolescenti abbiano un rapporto confidenziale con i genitori in materia di sessualità e affettività. Non si tratta di fare indottrinamento, non è questione di politiche “gender” (espressione che non si sa che cosa dovrebbe significare ma viene usata come spauracchio).

E invece?

Invece in Italia la cultura sessuofobica, a causa della forte matrice cristiana che vede il sesso come atto destinato alla procreazione e, fuori da questo scopo, come qualcosa di sporco e peccaminoso (che “si fa ma non si dice”), ha impedito e continua a impedire l’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole, in compagnia di uno sparuto gruppo di Paesi europei.

In alcune realtà, come Aied riusciamo a offrire alle scuole corsi completi che affrontano la sessualità nel suo complesso, in rapporto alle emozioni, ai sentimenti, alle relazioni. Ma spesso le scuole optano per soluzioni ridotte (quando va bene), in cui si affrontano solo organi riproduttivi e contraccezione [3]. Sarebbe bene che le scuole si potessero organizzare da sole, con risorse proprie, per intraprendere questo tipo di percorsi, al fine di aiutare le giovani generazioni ad affrontare la propria vita con autodeterminazione e possibilità di scelta in maniera informata; e con tutto il rispetto dovuto per le vite degli altri.

Loris Tissino

Approfondimenti

  1. Questa e altre testimonianze citate sono riportate nel libro Amore e libertà. Storia dell’Aied, di Gianfranco Porta (Editori Laterza, 2013).
  2. Aied. La nostra storia (www.aied.it/la-storia).
  3. Si veda in merito il dossier di Focus Scuola, Educazione sessuale, chi l’ha vista? numero 3, marzo 2019.

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