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Sentire le voci, un test per capire chi ha bisogno di aiuto

Tra chi sente le voci, circa una persona su quattro non ha alcun disturbo psichiatrico; un nuovo studio fa passi in avanti sulla comprensione delle allucinazioni uditive.

da Eleonora Degano

Secondo le stime tra il 5 e il 28% delle persone sente voci che gli altri non sentono. Possono essere positive, neutrali o dare comandi potenzialmente pericolosi, appartenere a bambini, adulti, anziani e arrivare sotto forma di pensiero o proprio come se qualcuno accanto a noi ci stesse parlando. Pur essendo l’allucinazione uditiva più comune tra chi soffre di disturbi come la schizofrenia o la depressione, anche persone in piena salute mentale possono sentire voci. Circa una persona ogni quattro rientra in quest’ultimo caso, come mostrato da uno studio del 2015, che ha confermato come il sentire le voci non sia il “primo sintomo della pazzia”.

Fino a qualche tempo fa il fenomeno non era discusso apertamente per timore della stigmatizzazione, mentre oggi gode di molte più attenzioni mediche e chi lo sperimenta può facilmente trovare informazioni e supporto. Spesso resta però difficile stabilire in quali casi il sentire le voci sia un problema e quando si tratti invece di un’allucinazione benigna, slegata da patologie psichiatriche e che non compromette la qualità della vita.

Secondo un nuovo studio dell’Università di Yale, appena uscito su Science, un vecchio test (che ha compiuto ormai 125 anni ed è basato sul condizionamento pavloviano) può venire in aiuto dei professionisti e aiutarli ad aiutare il paziente. Chi sente le voci, infatti, è più sensibile a questo test nel quale le allucinazioni uditive vengono indotte.

Come spiega lo psichiatra Philip Corlett, co-autore insieme al collega Al Powers e al neuroscienziato Chris Mathys (professore alla SISSA di Trieste), le allucinazioni possono essere il frutto di un disequilibrio tra le nostre aspettative sull’ambiente che ci circonda e le informazioni che effettivamente riceviamo attraverso i nostri cinque sensi. Ovvero potremmo percepire quello che ci aspettiamo e non quello che olfatto, vista, tatto, gusto e udito ci stanno raccontando.

Con le allucinazioni uditive capita più spesso di quanto pensiate: quante volte avete cercato il cellulare in tasca o nella borsa convinti di averlo sentito suonare, invece nulla? Ma siete così abituati, vi aspettate talmente tanto che possa suonare da arrivare sentirlo. I nostri sentimenti, le nostre credenze e aspettative possono letteralmente bypassare i nostri sensi. Fa quasi paura.

Negli ultimissimi anni dell’Ottocento, proprio a Yale, è stato ideato un test che “induce le allucinazioni”, che gli scienziati hanno utilizzato nello studio pubblicato su Science. Si inizia organizzando i partecipanti allo studio in quattro gruppi: le persone che sentono voci (divise tra quelle con sintomi psicotici e quelle che non li presentano) e quelle che non le sentono (di nuovo, con sintomi psicotici e non). Poi si fa loro vedere uno stimolo combinato con una luce e un suono, mentre il loro cervello viene scansionato, e l’obiettivo è comunicare ai ricercatori quando si sente il suono, a volte difficile da identificare.

Molti riportano di aver sentito il suono anche quando non era stato riprodotto ma c’era solamente la luce insieme allo stimolo visivo (un’immagine), un effetto che nel gruppo di chi sentiva le voci era estremamente amplificato, accadeva fino a cinque volte più spesso. In tutti i soggetti infatti, clinici e non clinici, “i processi cerebrali coinvolti sono gli stessi che si attivano quando chi sentiva le voci riportava le allucinazioni”, spiega Corlett in un comunicato. Le persone con un disturbo psichiatrico accettavano a fatica l’idea di aver sentito un suono che non c’era e, sempre grazie alle scansioni del cervello, i ricercatori hanno visto entrare in gioco regioni spesso legate alle psicosi. Più intense erano le allucinazioni, per esempio, minore era l’attività riscontrata nel cervelletto.

Questi indicatori comportamentali, insieme alle informazioni fornite dal neuroimaging, potrebbero permettere ai professionisti del settore di vedere i primi segni di una patologia e identificare con maggiore efficacia e tempismo chi potrebbe aver bisogno di trattamenti, oltre a confermare le aree del cervello maggiormente coinvolte (dunque potenziali target di trattamenti come la SMT, stimolazione magnetica transcranica).

I trattamenti hanno già fatto grandi passi in avanti da quanto la via principale erano i tranquillanti, non in grado comunque di far sparire le voci. In passato agli psichiatri veniva consigliato di non incoraggiare i pazienti a parlare delle voci che sentivano quanto piuttosto a cercare di distrarli per non dare ulteriore “forza” all’esperienza. L’approccio moderno è molto più legato alla comunicazione e all’approfondire le voci, affinché nessuno si senta da solo: chi le sente può trarre beneficio dal parlarne con altri che vivono la stessa esperienza, cercando anche di capire il perché delle specifiche voci.

Evitare di affrontare la cosa potrebbe invece peggiorare l’esperienza, portando chi sente le voci in un vortice di ansia e vergogna. Il primo, fondamentale e più difficile passo da compiere secondo gli esperti? Accettare le voci come parte di sé.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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