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Scandalo Volkswagen: il mito di un rigore aziendale e nazionale apparente

di Marcello COLASANTI

Lo scandalo legato ai motori diesel Volkswagen, dove un software nella centralina del motore riconosce quando la vettura è sottoposta a controllo e, solo in questa fase, regola le emissioni secondo gli standard di legge – dato che tali motorizzazioni appartengono a tecnologie non recenti ma vendute come tali – getta nello sconcerto molte persone, soprattutto quelli che vedono nel marchio e nell’industria tedesca l’emblema della serietà e del rigore.
In realtà, c’è ben poco da stupirsi: da sempre il Gruppo Volkswagen, spesso in concorso con il governo tedesco e i lander federali, sono venuti meno alla famosa “serietà” teutonica.
Due casi sono piuttosto rilevanti.

Il più clamoroso è legato alla famosa “Legge Volkswagen”. Per blindare l’azienda da possibili scalate, soprattutto estere, una legge del 1960 disegnata appositamente per Volkswagen, limitava il peso del voto di ciascun azionista al 20%, anche se quest’ultimo deteneva una quota maggiore; la Repubblica federale e il Land della Bassa Sassonia, che detengono il 20% del capitale azionario, avevano ciascuno due membri del consiglio di sorveglianza in più; infine, una minoranza di blocco posta al 20% del capitale (guarda caso la stessa detenuta dallo Stato tedesco) per porre un veto alle decisioni rilevanti della società, quando per tutte le altre aziende tedesche questo è posto al 25%.
Per anni la commissione europea ha criticato aspramente queste norme che, oltre a essere leggi “ad aziendam”, ne minano le più basilari regole di libero mercato.

Le uniche modifiche che furono apportate riguardavano il numero dei membri del consiglio di amministrazione e le limitazioni di voto, mentre per il veto, la Germania fu legittimata dalla Corte di Giustizia Europea a mantenere intatta la “legge Volkswagen”, salvando così il diritto di veto per la Bassa Sassonia, anche se questo è formalmente contrario agli standard europei; abbiamo già avuto modo di vedere il “peso e misura” differente dell’Unione Europea nei confronti della Germania: in questo caso, anche sulla Volkswagen.

Per comprendere la portata di questa legge, basti pensare alla lunga battaglia tra Porsche e Volkswagen. La lotta fu intestina alle aziende stesse, dato che molti ruoli chiave, dagli azionisti maggioritari ai presidenti di consiglio, erano rappresentati dai medesimi soggetti; parliamo di Ferdinand Piech e Wolfang Porsche, nipoti di quel Ferdinand Porsche che fondò il marchio di auto sportive omonimo e contribuì in prima persona alla fondazione di “quell’auto del popolo” voluta da Adolf Hitler, progettando il Maggiolino nel 1938 (che sotto il nazismo non divenne l’auto del popolo, ma fu convertita per uso bellico, bisognerà attendere il dopoguerra perchè lo diventi).

La Porsche da anni deteneva il 18,65% delle azioni di Volkswagen, arrivando al diritto di veto nel 2006 con la quota salita al 25,1%. Dopo l’ennesima condanna da parte della Corte di Giustizia Europea per la suddetta legge, nel 2007 si aprirono spiragli maggiori per un effettivo cambio di gestione. Così Porsche allargò il suo capitale azionario al 35% nel 2008, fino alla maggioranza assoluta con il 51% del 2009. Ormai l’azione era palese, ma la stessa Porsche rivelò l’intenzione d’acquisto del 75% della casa di Wolfsburg, consentendogli di portarla all’interno del proprio gruppo. Ormai, con il 51% e liquidità pronta per il balzo al 75%, l’impresa era riuscita.

Dopo mesi di blocchi tramite veto, litigi e accuse tra gli esponenti del Consiglio di sorveglianza e l’azionista maggioritario di Porsche, proprio Ferdinand Piech (paradossalmente membro anche del consiglio Volkswagen), che minacciava più volte di rimettere tutto in mano alla Corte europea; con un colpo di scena incredibile l’acquirente veniva comprato e il venduto diveniva acquirente. Volkswagen divenne l’azionista maggioritario di Porsche con il 49,9%, acquistando il restando 50,1% nel 2012, formalizzando la fusione nella galassia Volkswagen.

Seppur molti attribuiscono l’esito della trattativa agli alti debiti contratti da Porsche per reperire liquidità, ne uscì comunque vincitore Ferdinand Piech, rimanendo l’azionista maggioritario di Volkswagen con all’interno la sua Porsche, ma senza quella legge, senza quell’ostracismo, con regole di mercato veramente libere, il tutto avrebbe avuto un esito sicuramente più veloce e differente, con le parti di acquirente e venditore invertite, come da principio.

Sul livello tecnico, altro caso famosissimo da citare è relativo al motore diesel “Iniettore-pompa”.

Negli anni novanta il motore Diesel subì un importante rivoluzione con l’invenzione del motore Common Rail (dove il carburante viene messo in pressione in un binario comune a tutti gli iniettori), sviluppato da Fiat e commercializzato la prima volta sull’Alfa Romeo 156 nel 1997.

Di contro, la Volkswagen progettò il sistema “PumpeDüse-Einspritzung”, in Italia iniettore pompa (dove la pressione viene generata direttamente all’interno di ciascun iniettore, sfruttando il movimento dell’albero a camme), che rispetto al sistema Fiat vantava una maggior potenza a parità di cilindrata, ma risultava più rumoroso, con consumi più alti e data l’impossibilità di frazionare i tempi di iniezione, emissioni inquinanti maggiori.
Ma il problema principale risiedeva nell’affidabilità del sistema stesso: date le elevatissime pressioni che si generavano negli iniettori, progettati insieme alla Siemens, quest’ultimi avevano una durata che difficilmente riusciva a superare i due anni di esercizio.

La fretta di rispondere alla tecnologia concorrente, spinse la casa tedesca a commercializzarlo comunque nel 2000, malgrado in fase di progettazione queste problematiche fossero note, confermate dai primi anni di vendita in cui l’affidabilità del sistema di iniezione palesò tutte le problematiche.

La forte critica non è nell’aver sbagliato un progetto, dato che si può comunque rimediare venendo incontro al cliente nella fase post-vendita, ma dato che la rottura vera e propria degli iniettori nella maggior parte delle vetture si verificava dopo i due anni, a garanzia scaduta, il problema non veniva riconosciuto come difetto di fabbrica: molti clienti si ritrovarono a dover sborsare dai 2.500 ai 3.300 euro per la sostituzione dei suddetti, dato che nei primi anni la procedura imposta alla rete di assistenza era la sostituzione non dell’iniettore malfunzionante, ma di tutto il gruppo iniettori.

Così, per oltre dieci anni, la Volkswagen ha venduto deliberatamente un motore che sapeva, con dati certi alla mano, che non avrebbe retto i due anni di vita, se non con una ciclica sostituzione degli iniettori.

Dopo una lunga battaglia e class action degli acquirenti, la casa ha riconosciuto il difetto provvedendo, nei casi di malfunzionamento, alla sostituzione in garanzia; questo nel 2012, dopo dodici anni, accantonando la produzione dell’iniettore pompa e convertendo la produzione al sistema commor rail.

Ci sarebbero altri casi da citare, ma questi furono i più rilevanti. In fondo, per correttezza dobbiamo dirlo, le altre case automobilistiche, dalle europee, alle americane, passando anche per le nipponiche, non sono senza macchia.

Il punto è l’aver sempre, volutamente, incarnato l’emblema della rigidezza, della serietà, del “primo della classe” che impartisce, come azienda e come “tedesco”, la lezione agli “altri furbetti” di turno quando da sempre, tecnicamente e legalmente, i furbetti li facevano anche loro.

Ma la portata assume un carattere molto più grande, non aziendale, ma in questo caso statale e governativo; qui va imputata non solo l’azienda, ma anche quella Germania paladina del “rigore” e “dell’austerità” che traina l’Europa bacchettando (e comandando) le nazioni da loro definite “scansa fatiche”.

Con i loro rappresentanti all’interno del Consiglio di controllo, dove tutto si discute e decide, maggiorati di due sia per la Repubblica federale che per il Land della Bassa Sassonia, oggi, dire che a livello governativo lo stato tedesco non sapesse nulla della vicenda, appare alquanto disonesto.

Anzi, il governo sicuramente sapeva, calcolando che si tratta non di una piccola inadempienza di un ingegnere, ma della vendita di motori tecnologicamente arretrati ed elettronicamente truccati, montanti su undici milioni di vetture.

Altre azioni gravi ce lo dimostrarono, ma questa vicenda mette in luce tutta la falsità di un sistema, quello tedesco, che seppur lodevole per molti aspetti, nella sostanza di chi governa e assume ruoli cardine è fatto di bellissima e rigorosissima apparenza, utilizzando gli stessi mezzucci che, dal loro pulpito, criticano e denunciano nei confronti delle altre nazioni.

Dopo aver imposto massacranti “compiti a casa” (così li definivano) ad altri paesi, vittime dei loro giochi finanziari, che sia arrivato il momento per la Germania del “recupero dei suoi debiti”, scolasticamente, finanziariamente e storicamente parlando?

Non credo che la Germania imparerà da questa nuova lezione, ma da una nazione che esige e non paga mai, appare ma nella sostanza non è, finalmente, i pochi che ancora credono nel mito teutonico (forti anche della questione greca), almeno loro, avranno imparato?

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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