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Rosy Bindi. Di Napoli e su Napoli: ignoranza o malafede?

Contro i sindaci eletti e non allineati è sceso in campo da tempo un moralismo senza morale che celebra l’arte del rottamare. E’ soprattutto fango, ma da tempo Milano si è arresa e a Roma giornali e telegiornali sono l’olio di ricino e i manganelli per la quotidiana bastonatura a Marino. In quanto a Napoli, per liquidare De Magistris, si tira Bassolino fuori dai rifiuti in cui naufragò e si agita lo spauracchio della camorra. L’ex capitale del Sud, però, resiste, torna “laboratorio” e contro l’arte del rottamare, suscita il binomio arte-rivoluzione che entra nel corpo vivo della città e ne svela l’anima. Come accade sempre quando si sente aria di cambiamento, persino il linguaggio della gente nei quartieri popolari anticipa o accompagna trasformazioni ormai evidenti, mette in circolazione modelli alternativi di organizzazione sociale e ammanetta le solite “mani sulla città”.

Per Napoli e i napoletani, l’accento purtroppo cade spesso su un’anima creativa, che solo di rado si associa alla tempra dei rivoluzionari. E’ vero, Fernard Braudel, il grande storico della “École des Annales”, scrive che la città è “luogo di creazione” e accenna al “suo abbagliante Settecento”, il secolo in cui essa “donò all’Europa l’archeologia, la musica, l’opera, l’economia” ma nel fiorire di cultura e d’arte, il secolo si chiuse con la sfortunata rivoluzione del 1799, che privò Napoli del fior fiore della classe dirigente. In realtà, la storia degli eventi e i suoi orizzonti chiusi dominano ancora una cultura troppo legata al potere e lasciano in ombra la visione della vicenda umana fondata sullo studio dei caratteri della civiltà e delle trasformazioni nei tempi lunghi. Braudel, quindi, non salva dalla sua amara sorte l’ex capitale del Sud, ridotta a provincia e costretta ai margini della storia nazionale.

Quanti conoscono la fierezza di un popolo, pronto a levarsi contro l’Inquisizione spagnola, cui negò cittadinanza entro le sue mura? Quanti ricordano che Domenico Cimarosa, ultimo esponente della musica operistica napoletana, forse non riuscì a innovarne il linguaggio, ma nel 1799 colse la carica innovativa della rivoluzione e musicò l’Inno di Luigi Rossi “per lo bruciamento delle immagini dei tiranni”, suonato poi per la festa dell’albero della libertà? Di lui si sa che cercò il compromesso col Borbone, ma è raro si dica che patì il carcere e un esilio da cui non tornò più.

Amara sorte, quella di Napoli, eterna “capitale della camorra”, a cui un uso politico della storia, impedisce di superare il filtro dei pregiudizi. Quando si tratta di Napoli, persino lo scontro più sanguinoso coi padroni di turno passa per la lente deformante dello stereotipo e la “città di plebe” non conosce rivolta politica. E’ furia plebea, ad esempio, la rivolta del 7 luglio 1647, perché il popolo grida con Tommaso AnielloViva il re di Spagna, mora il malgoverno” e non distingue tra sovrano e governo. A ben vedere, però, è difficile capire se il passato sia stato letto con gli occhi di chi lo visse o con il sistema di valori del presente. Se ne sarebbe dovuta ricavare una grande lezione storica, ma si tende invece a tacerla: nacque così la camorra, supplente dello Stato, se lo Stato si disinteressa della gente. Una lezione così attuale e rivelatrice, che ce n’è voluta una più comoda, per deformare il passato e impedire di leggere il presente: l’insurrezione effimera, senz’anima politica o, se si vuole, la “rivolta di Masaniello, il “rivoluzionario napoletano” per antonomasia.

E sì che per vent’anni l’italiano medio, non il napoletano, distinse tra Duce e fascismo: Mussolini fu il “padre buono”, i gerarchi simbolo di malgoverno. Nessuno però legge la Resistenza come rivolta effimera. L’esplosione di rabbia inconsulta, il fuoco di paglia, la rivolta di lazzari e scugnizzi sono geneticamente napoletani.

Quanto razzismo ci sia in questa secolare deformazione, che va dal disprezzo piemontese per i “briganti” al “pensiero politico” del lombardo Salvini, è difficile dire; tuttavia, nel solco di una storia “manipolata” si collocano “vuoti di memoria”, inspiegabili amnesie e figure cancellate dalla storia politica di un Paese la cui cultura media esprime Rosy Bindi, quando, volendo colpire il laboratorio politico messo su da Luigi De Magistris – guarda caso, il “sindaco Masaniello” – giunge a definire Napoli città “strutturalmente” camorrista. Rosy Bindi, che dovrebbe spiegare a se stessa, prima che ai napoletani, come potrebbe vivere la camorra senza sostegni politici e quali legami politici uniscono Milano da bere, capitale di “Mani pulite”, a Roma di “mafia capitale” e ai crimini veneziani. Spiegarci – e senza giri di parole – il silenzio del potere che lei rappresenta su tante nobili figure di antifascisti napoletani, inconciliabili con la sua costruzione ideologica. Ignoranza o malafede?

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